Parrocchia S. Gerolamo Emiliani di Milano - Blog

Il Blog "Insieme per..." vuole proporre spunti di riflessione e di condivisione per costruire insieme e fare crescere la comunità della parrocchia di San Gerolamo Emiliani di Milano, contribuendo alla diffusione del messaggio evangelico.

venerdì 28 febbraio 2014

898- IL RITORNO DEL FIGLIOL PRODIGO

 Il Ritorno del figliol prodigo è un dipinto, eseguito nel 1619, ad olio su tela, da Giovan Francesco Barbieri, detto il Guercino (1591-1666), conservato presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna (Austria).

Il dipinto s'ispira alla Parabola del figliol prodigo, detta più correttamente Parabola del Padre misericordioso. La scena ritratta raffigura la conclusione della vicenda, ovvero il perdono del padre nei confronti del figlio minore pentito della propria condotta sperperante. Nel dipinto compaiono: il giovane, dopo aver invocato il perdono da parte del padre, sta togliendosi i vestiti laceri da guardiano di porci e riceve gli abiti puliti da un servitore; il padre accoglie con un gesto amorevole e quasi protettivo il figlio minore. L'anziano signore, aiutato da un servitore, si accinge a vestire il figlio pentito. Il pittore rende evidente l'analogia tra il genitore della parabola e Dio: l'aspetto del personaggio ricalca, infatti, i tradizionali lineamenti attribuiti a Dio Padre; il servitore porge vestiti puliti ed eleganti per il giovane pentito.
Il dipinto appartiene alla prima fase della carriera artistica del pittore nella quale risente profondamente dell'opera di Ludovico Caracci, in particolare nel volto dei due giovani, mentre il vecchio, con la sua faccia scavata, rimanda all'arte di Caravaggio, così come d'ispirazione della scuola romana è l'atmosfera oscura e gli effetti luminosi presenti nella scena.

897 - DOMENICA DEL PERDONO

"In quel tempo. Il Signore Gesù disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. (Lc. 15,11-32)

Di solito si preferisce il figlio minore, perché ha avuto il coraggio di tornare a chiedere perdono, e si guarda con antipatia al figlio maggiore, così poco generoso nei confronti del fratello. D’altra parte, aveva tutte le ragioni: suo fratello, il figlio minore, aveva chiesto quello che il diritto gli riconosceva, di ricevere la sua parte di eredità prima della morte del padre, per farsi la sua vita.
I due fratelli, a ben vedere, sono uguali. Perché il figlio minore se n’è voluto andare? Perché non ha provato a dialogare con suo padre, prima di pretendere la sua parte? E la chiede senza tentennamenti. Questo figlio ci descrive il cammino che percorre chi non si fida di suo padre: se ne va dalla terra, così importante per un ebreo; si reca in luoghi dove ci sono altri costumi e lingue e modi di vivere e ne resta affascinato e travolto: vive da dissoluto. Rinuncia pian piano anche alla sua fede, al suo Dio: facendosi custode di porci, diventa immondo.
Certo, arrivato al fondo, ha un guizzo di memoria: «Mio padre è buono. Se gli chiedo un lavoro, me lo dà». Torna sì a casa, ma non per chiedere perdono, solo per avere uno stipendio. Va da suo padre non come figlio, ma come operaio in cerca di lavoro da un padrone notoriamente buono. Torna non per essere figlio, ma per fare il servo!
È la stessa cosa che ha sempre fatto il fratello maggiore: «Io ti servo da tanti anni».
Non si è mai sentito figlio, ma solo servo! Anche lui conosce bene suo padre, sa che se il fratello minore torna, sarà riaccolto e perdonato. Lo capisce subito, appena sente musica e canti! Anche lui non parla con suo padre: invece di correre a casa e “farla fuori”, preferisce chiedere di nascosto, nell’ombra, a un servo buono: «Tuo fratello è qui e tuo padre fa festa». Allora si arrabbia e rimane fuori dalla casa: proprio come il fratello minore che se ne era allontanato! E non si sente più figlio: «Ora che è tornato questo tuo figlio!».
È il padre il protagonista. Ha rispettato la libertà del figlio minore, anche se è rimasto addolorato dal suo andarsene. Appena intuisce dove va a parare il discorso che quel figlio ha preparato per bene (vuole solo un lavoro) lo blocca: non sarà mai un salariato! Per lui è rimasto sempre suo figlio e, infatti, gli ridà l’anello con cui avrebbe potuto firmare assegni e contratti! È come se non fosse mai partito! Non si smette mai di essere figli per Dio!
Lo stesso accade con il figlio maggiore: gli va incontro, come ha fatto con il minore, e dopo aver sentito quelle parole così cattive e offensive, gli dice: «Bimbo mio»! Non solo “figlio” come si legge nella traduzione italiana, ma teknon, che in greco significa appunto «bimbo mio, piccolo mio». È con infinita tenerezza che il padre risponde al figlio che l’ha offeso!
Si può essere persone per bene; si può andare a Messa e obbedire ai comandamenti, ma non basta!
A Dio non interessa la nostra obbedienza, ma il nostro amore. Non ci vuole servi ma figli! Dio non ci attende per giudicarci, ma per abbracciarci!
Mons. Ennio Apeciti

giovedì 27 febbraio 2014

896 - I TWEET DI PAPA FRANCESCO

Tutti noi battezzati siamo discepoli missionari. Siamo chiamati a diventare nel mondo un Vangelo vivente.

Todos los bautizados somos discípulos misioneros, llamados a ser en el mundo Evangelio vivo.

All of us who are baptized are missionary disciples. We are called to become a living Gospel in the world.

Nous tous, baptisés, nous sommes disciples-missionnaires. Nous sommes appelés à devenir dans le monde un Évangile vivant.

نحن المعمدون جميعا تلاميذ مرسلون. إننا مدعون لأن نصبح في العالم انجيلا حيًّا

Todos nós, batizados, somos discípulos missionários. Somos chamados a nos tornar um Evangelho vivo no mundo.

Wszyscy ochrzczeni jesteśmy uczniami misyjnymi. Jesteśmy wezwani by stawać się żywą Ewangelią w świecie.

Als Getaufte sind wir alle missionarische Jünger. Wir sind dazu berufen, in der Welt ein lebendes Evangelium zu werden.

25/02/2014

895 - APOSTOLATO DELLA PREGHIERA - MARZO 2014

Universale: Perché in tutte le culture siano rispettati i diritti e la dignità delle donne.

Per l’evangelizzazione: Perché numerosi giovani accolgano l’invito del Signore a consacrare la loro vita all’annuncio del Vangelo

sabato 15 febbraio 2014

893 - 6 DOMENICA DOPO L'EPIFANIA

“Allora i farisei uscirono e tennero consiglio per farlo morire”. Il Vangelo di Matteo 12,9b-21 ruota intorno a questa frase. Perché i farisei prendono questa decisione? Hanno tentato per l’ennesima volta di incastrarlo, vedendo quell’uomo dalla mano paralizzata nella sinagoga proprio di sabato. Sanno che Gesù non resiste di fronte alla sofferenza degli uomini, che non rimarrà indifferente, vedendo quell’uomo e lo provocano: «È lecito guarire in giorno di sabato?».
Probabilmente la domanda insidiosa è dettata dalla convinzione che Gesù farà come tutti i guaritori: toccherà quell’uomo, farà qualche gesto magico, farà qualche mistura o unguento, da spalmare sulla mano, tutte cose proibite dalla rigida legge del sabato, che permettevano di curare una persona solo in pericolo di morte. Quell’uomo non rischiava certo di morire, ma se non lo avesse guarito, avrebbero potuto sempre accusarlo di indifferenza verso chi soffre. Gesù risponde con coraggio o meglio con autorità, come un vero maestro ebreo. Prima prende l’esempio di quello che gli stessi farisei e la gente comune faceva: salvare la propria pecora caduta nel fosso. Poi ricorda che l’essere umano è superiore a un animale, e quindi trae la conclusione: «È lecito in giorno di sabato fare del bene».
Gesù non si limita a insegnare con le parole, ma compie un gesto, che dimostra come si può rispettare il sabato e fare del bene. Non compie alcuna azione: parla. E il paralitico tende la mano, come gli ha detto Gesù: si fida delle sue parole, ben diversamente dai farisei. Che cosa comporta la decisione dei farisei di uccidere Gesù? Matteo risponde: con essa si realizza quello che aveva detto il profeta Isaia nei cosiddetti Carmi del Servo. I farisei condannano Gesù, perché agisce come aveva scritto il profeta: non condanna, non grida, non rinuncia mai a sperare neppure se una canna è incrinata o una lampada è ormai senza più olio.
È venuto non per giudicare né per condannare, ma per infondere speranza in ogni essere umano! per ricordarci che l’essere umano è il capolavoro di Dio! Forse serve anche a noi ricordare che tra gli animali e l’essere umano c’è una differenza incolmabile: l’uomo non è un animale! Sul crinale della creazione, l’essere umano è dalla parte di Dio, non degli animali: «Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato» (Salmo 8,5-6).
O, come diceva sant’Ambrogio: l’uomo è il «capolavoro di Dio», «il culmine dell’universo e la suprema bellezza d’ogni creato», perché Dio ha «fatto l’uomo dotato di ragione, capace di imitarlo, emulo delle sue virtù». E, proprio perché fatto «poco meno di un dio», l’uomo può ed è chiamato a compiere il bene, come scrive la Lettera a Diogneto: «Amandolo diventerai imitatore della sua bontà. Non meravigliarti che un uomo possa diventare imitatore di Dio: lo può perché Egli lo vuole. Chi prende su di sé il fardello del prossimo e cerca di servire anche gli inferiori; chi, donando ai bisognosi ciò che gli fu dato, diventa come un Dio per i suoi beneficati, costui è imitatore di Dio».
Mons. Ennio Apeciti

sabato 8 febbraio 2014

892 - 5 DOMENICA DOPO L'EPIFANIA

Giovanni (nel cap.4,46-54) è preciso nel dirci che la guarigione del figlio del funzionario del re è «il secondo segno» compiuto da Gesù. “Segno” è più di un miracolo: Gesù non ha fatto qualcosa di eccezionale (un miracolo), ma vuole insegnarci che non sbagliamo a credere in lui. Per questo Giovanni alla fine del segno di Cana scrive: «I suoi discepoli credettero in lui» (Giovanni 2,11); e nel brano di oggi conclude: il ministro del re «credette con tutta la sua famiglia».
Non è un caso che sia il secondo segno. Il primo (la trasformazione dell’acqua in vino) Gesù l’ha fatto per custodire l’amore di due giovani poveri che stavano iniziando la splendida avventura della loro vita di sposi. Sarebbe stato ben triste che mancasse il vino in quell’occasione di gioia.
Gesù ama troppo l’amore dell’uomo per tollerare che si spenga o che sia messo in pericolo e per questo ascolta l’invito di sua madre, chiedendo ai servi del banchetto di nozze di fidarsi di lui. Adesso è in gioco l’amore di un padre per suo figlio, che «stava per morire». L’amore di un padre (e di una madre, ovviamente) è troppo prezioso per Gesù. Dio non può rimanere indifferente al grido di un genitore, perché Dio stesso ci è Padre e Madre.
Dio ama troppo la vita per lasciare che si spenga: «Tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata» (Sapienza 11, 24). Dio ama tanto la vita che ha vinto la morte con la risurrezione di Gesù. E così accadrà anche a noi, se crederemo in lui.
Giovanni è poi preciso nel dirci l’ora della guarigione del ragazzo: «Ieri, un’ora dopo mezzogiorno». Giovanni vuole insegnarci che il segno è veramente avvenuto; è storico. La nostra fede non si basa su fantasie o favole, ma sulla verità: è vero quello che Gesù ha fatto al ragazzo morente ed è vero quello che ha detto a quel papà. Vale per noi: ciò che Gesù ha fatto, è per farci capire che ciò che dice è vero! Quel papà è giustamente disperato: suo figlio sta morendo e Gesù sembra tergiversare. Quel papà insiste, mostrando tutta la sua speranza in Gesù (lo chiama «Signore, Dio») e tutto il suo amore per il figlio: «Vieni prima che muoia!».
A Gesù basta: ha colto nelle parole di quel papà la fede e l’amore. Non bastano, però, le parole: la fede vera si vede nelle scelte della vita. Quel papà forse si aspettava che Gesù andasse con lui a casa sua, come facevano tutti i medici e i maghi e i guaritori. Invece Gesù gli chiede di fidarsi delle sue parole: «Tuo figlio vive». E quell’uomo «credette alla parola di Gesù». Non sa ancora che suo figlio è guarito, ma torna a casa fidandosi delle parole di Gesù.
A noi, che vogliamo essere sicuri, che preferiamo vedere se è proprio vero, se vale la pena fidarsi, papa Francesco dice: «La fede sa che Dio si è fatto molto vicino a noi, che Cristo ci è stato dato come grande dono che ci trasforma interiormente, che abita in noi, e così ci dona la luce che illumina l’origine e la fine della vita, l’intero arco del cammino umano. Possiamo così capire la novità alla quale la fede ci porta. Il credente è trasformato dall’Amore, cui si è aperto nella fede» (Lumen fidei 20).
Mons. Ennio Apeciti

sabato 1 febbraio 2014

891 - EMERGENZA SIRIA

Custodia Francescana di Terra Santa

Quante sofferenze dovranno essere ancora inflitte prima che si riesca a trovare una soluzione alla crisi?”. Papa Francesco, 4 giugno, incontro del Pontificio Consiglio Cor Unum.

La Siria si trova coinvolta in un conflitto sempre più crudele, molti sono riusciti a fuggire, ma sono ancora tantissime le persone che abitano il paese. Le loro difficoltà si fanno ogni giorno più grandi: i continui attacchi stanno distruggendo tutto, non si trova più il pane, Aleppo e Damasco sono diventate delle città-fantasma, chi esce di casa per trovare qualcosa da mangiare a volte non torna più indietro…
Accanto alla popolazione.Sono 11 i frati rimasti a prendersi cura della popolazione.

Ecco le sedi principali: ad Aleppo, nel convento di Sant’Antonio di Padova, è rimasto padre Bassam con fra Edoardo, mentre ad Azizieh, poco distante, sopravvive la parrocchia latina sotto la responsabilità di padre Georges.
A Damasco, a custodire la cappella di Sant’Anania, c’è ancora padre Raimondo con un altro frate, di nome Atef. Ancora, nella capitale siriana, rimangono in vita due conventi, al memoriale san Paolo (dove è avvenuta la sua conversione) con il superiore padre Romualdo e a Salhieh, poco vicino, gestito da padre Giuseppe.
Sul mare il convento di Lattakiah, dove vivono 3 frati sotto la guida di padre Maroun.
E infine a Kanyeh, vicino al Libano, il convento di san Giuseppe è gestito da padre Hanna.

Il Custode di Terra Santa p. Pierbattista Pizzaballa ha dichiarato: “La questione siriana è delicatissima e i civili sono inermi davanti alla ferocia di quanto sta accadendo; la preghiera è uno strumento indispensabile ma è urgente sostenere la popolazione, sfiancata dal massacro, con un aiuto concreto”.

Fin dall’inizio della guerra in Siria, i frati hanno creato 4 centri di accoglienza, che danno da dormire a circa 200 persone, e provvedono ai bisogni primari (cibo, vestiti e medicine) di circa 400 persone ogni giorno. Ogni mese circa 50 famiglie vengono aiutate a cercare nuove case.

Per rimanere informati sulla situazione in Siria: www.terrasanta.net