Parrocchia S. Gerolamo Emiliani di Milano - Blog

Il Blog "Insieme per..." vuole proporre spunti di riflessione e di condivisione per costruire insieme e fare crescere la comunità della parrocchia di San Gerolamo Emiliani di Milano, contribuendo alla diffusione del messaggio evangelico.

venerdì 20 luglio 2012

707 - VIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE

Il brano di Marco 10,35-45 fa seguito al terzo annunzio della passione (vv. 32-34), evidentemente non accolto dagli Apostoli se due di essi, i fratelli Giacomo e Giovanni, si premurano di ottenere i posti d’onore accanto a Gesù nel giorno della sua manifestazione come Messia, da essi ritenuto glorioso e potente (vv. 35-37). Nella sua risposta (v. 38) Gesù li riporta a quanto aveva prima detto a proposito della sua passione e morte, considerata come un calice pieno di una bevanda amara (cfr. Salmo 74,9; Isaia 51,17-22); e come un battesimo ovvero come un’immersione nella sofferenza e nei dolori (cfr. Salmo 42,7; 69,2.15; Isaia 53,2).
Ai suoi due incauti interlocutori Gesù predice la loro partecipazione alle sue sofferenze, ma ribadisce che assegnare i posti d’onore spetta a Dio (vv. 39-40). La seconda parte del brano (vv. 41-45), allacciata alla prima dall’osservazione sulla reazione dei Dieci alle richieste dei due fratelli (v. 41), è composta da alcuni detti del Signore circa i ruoli di rango nella sua comunità occupati incredibilmente, per la normale prassi umana, da chi è pronto a essere «schiavo di tutti» (vv. 42-44). Affermazioni che trovano il loro fondamento nel comportamento del Signore che è venuto nel mondo «per servire» e il suo servizio è di andare alla morte al posto e a favore di tutti gli uomini (v. 45).
Le divine Scritture proclamate documentano e testimoniano la fedeltà di Dio alle sue promesse e alla sua alleanza con Israele, da intendere come annunzio della sua fedeltà amorevole nei confronti dell’intera umanità liberata e riscattata nella Croce del suo Figlio. Una fedeltà, quella di Dio, che non viene meno neppure in presenza di ripetuti clamorosi voltafaccia di Israele che, non tenendo viva tra le nuove generazioni la «memoria» di «tutte le grandi opere che il Signore aveva fatto in favore d’Israele» (Letttura: Giudici 2,7), arriva al punto di adottare i culti idolatrici dei popoli viciniori cosa, questa, che la Scrittura non esita ad assimilare alla prostituzione (v. 17; Salmo 105).
Un simile abbandono non poté che portare sciagure e lutti a Israele, che veniva regolarmente vinto e depredato dai suoi nemici. Eppure il Signore continuò a proteggere e a prendersi con pazienza cura del suo popolo eleggendo dodici uomini chiamati “Giudici”, che si sono succeduti dall’ingresso di Israele nella terra promessa fino alla fondazione della monarchia, per «salvarli dalle mani di quelli che li depredavano» (v. 16).
Nell’esperienza d’Israele che volta le spalle a Dio abbandonando colui che lo aveva reso un popolo con una propria terra e con una legislazione straordinaria per quei tempi, non è difficile vedere l’esperienza dell’intera umanità. Essa, mentre si consegna al servizio degli idoli che si succedono nei secoli: personaggi storici, sistemi ideologici, politici, economici, scientifici, tecnologici, appare restia ad accogliere la predicazione del «vangelo di Dio» (cfr. Epistola: 1 Tessalonicesi 2,2.8.9) che, unico, le può assicurare un’autentica duratura libertà affrancandola dalla triste condizione di violenza, di ingiustizia e di immani tragedie a cui va regolarmente incontro.
Dio, però, come per Israele, non smette di amare l’umanità pervertita dietro l’idolatria delle cose di questo mondo e giunge al punto estremo di inviare come liberatore e salvatore il suo Figlio. Egli, e questo è il dato sorprendente e inedito, compie la missione ricevuta dal Padre non nella potenza e nella gloria così come la intende il mondo, compresi i suoi apostoli (cfr. Vangelo: Marco 10,37), ma accettando di bere lui, e fino in fondo, il calice amarissimo del castigo divino che inevitabilmente si abbatte sul peccato e che, di conseguenza, toccherebbe all’umanità e di immergersi nelle acque oscure dei dolori e delle sofferenze pure ad essa destinate (cfr. v.38). Mentre adoriamo i divini disegni riguardanti la nostra salvezza in Cristo Crocifisso, riconosciamo che essa è tutta racchiusa nel “calice di benedizione” posto sull’altare.
Assumendo il Corpo e il Sangue del Signore e, dunque, il nostro “riscatto” (cfr. v.45), impariamo, con la sua Grazia, a mettere a morte l’inclinazione pestifera presente nei nostri cuori e che ci induce a ricercare la gloria mondana del potere, del dominio, del primeggiare su gli altri. La comunione al Corpo del Signore immolato per noi deve necessariamente condurci a bramare, sul suo esempio, il servizio e l’ultimo posto. È questo il comportamento degno di Dio di cui ci parla l’Apostolo (cfr. 1Tessalonicesi 2,12) e che, specialmente ai nostri giorni, è l’unico capace di far nascere nel cuore degli uomini e delle donne un interesse e un autentico ascolto del Vangelo di Dio che è il suo Figlio Crocifisso. 
A. Fusi