Parrocchia S. Gerolamo Emiliani di Milano - Blog

Il Blog "Insieme per..." vuole proporre spunti di riflessione e di condivisione per costruire insieme e fare crescere la comunità della parrocchia di San Gerolamo Emiliani di Milano, contribuendo alla diffusione del messaggio evangelico.

martedì 31 luglio 2012

710 - APOSTOLATO DELLA PREGHIERA - AGOSTO 2012

Generale: Perché i carcerati siano trattati con giustizia e venga rispettata la loro dignità umana.
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Missionaria: Perché i giovani, chiamati alla sequela di Cristo, si rendano disponibili a proclamare e testimoniare il Vangelo sino agli estremi confini della terra.

domenica 29 luglio 2012

709 - TI LODERO' SIGNORE


Ti loderò Signore con tutto il mio cuore,
narrerò le tue meraviglie.
In te mi allieterò ed esalterò il tuo nome,
o Altissimo!
Salmo 9

venerdì 27 luglio 2012

708 - IX DOMENICA DOPO PENTECOSTE

Il testo di Marco 8,34-38 riporta alcuni insegnamenti rivolti da Gesù alla folla e ai suoi discepoli riguardanti essenzialmente l’esigenza della fedeltà nella sequela. Il v. 34 elenca tre condizioni quali il rinnegare se stesso; il prendere la croce ossia essere pronto ad accettare le conseguenze più dure della fedeltà e, infine, la perseveranza nel seguire e nello stare con lui. Segue al v. 35 l’importante detto relativo al salvare e al perdere la propria vita, che comporta non solo la fine dell’esistenza, ma anche la fine della realtà più autentica dell’uomo. Questa potrà sopravvivere al di là della morte grazie alla fedeltà a Gesù e al suo Vangelo. I vv. 36-37 rappresentano quasi un commento al versetto precedente ponendo al di sopra dell’interesse dell’uomo la salvezza della propria vita! Il brano si conclude al v. 38 con la prospettiva del giudizio finale di riprovazione per coloro che, nella loro esistenza, hanno rifiutato Gesù e si sono vergognati di lui e del suo Vangelo.
Un posto privilegiato tra i personaggi dell’Antico Testamento che preparano la venuta e la missione del Signore Gesù va certamente assegnato a Davide, successore di Saul nella guida di Israele quale re, e depositario delle divine promesse riguardanti il suo regno destinato a durare per sempre e la sua discendenza da cui Dio avrebbe suscitato il Messia.
Il passo della Lettura presenta Davide oramai saldo sul suo trono e desideroso di introdurre a Gerusalemme, la capitale del regno, l’Arca dell’alleanza, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Il testo biblico coglie il re tutto intento a onorare Dio esprimendo con la danza la sua fede, il suo amore e tutta la gioia per la certezza della sua presenza e benefica vicinanza.
Egli, perciò, non trova disdicevole né umiliante per la sua funzione regale «danzare con tutte le sue forze davanti al Signore... cinto di un efod di lino» (Lettura: 2Samuele 6,14), cosa questa che gli attira il «disprezzo in cuor suo» di sua moglie (v. 16).
In tutto ciò Davide, pronto ad abbassarsi ancora di più (v. 22) per manifestare la sua fede e obbedienza a Dio, è figura profetica del Signore Gesù che, venendo a noi dal Cielo, si è “abbassato” assumendo la nostra stessa realtà umana fino alla morte obbrobriosa sulla Croce.
In essa, come dichiara l’Apostolo, che concentra e ricapitola in sé tutto ciò che è stolto, debole e ignobile e nulla per il mondo, si manifesta la superiore sapienza e potenza divina capace di «ridurre al nulla le cose che sono» (Epistola, 1Corinzi 1,28) e di recare invece «giustizia, santificazione e redenzione».
Coerentemente a ciò che Gesù ha fatto e poi ha insegnato, egli chiede espressamente a chi intende farsi suo discepolo di seguirlo sulla via dell’abbassamento ossia della disponibilità a «prendere la propria croce» condividendo il destino del Signore fino al rinnegamento di sé e, dunque, ad andare incontro alla morte così come alla scarsa considerazione di quanti, accogliendo la mentalità di questo mondo fondata sul potere, il successo, il dominio e l’orgogliosa autoaffermazione, seguono Mical, moglie di Davide, nell’atteggiamento di repulsione e di vergogna che li chiude, però, in una sterilità improduttiva (2Samuele 6,23).
Accogliendo le parole del Signore che, proprio nella celebrazione della sua passione e morte, ha voluto rendere perenne il suo abbassamento fino a «perdere la sua vita» per noi, ci sentiamo trafiggere intimamente in quanto colpiscono al cuore ciò che abbiamo di più caro: la nostra vita ossia l’amore esclusivo e smodato di sé che ci porta a vantarci, a ergerci, cioè, persino davanti a Dio e a cercare in tutti i modi di crescere nell’affermazione del nostro io, costi quel che costi.
Il rimedio contro questa pretesa e questo vanto che si fonda davvero sul “nulla” ci è dato nell’ascolto umile e sincero della Parola e soprattutto nel ricevere con piena consapevolezza il pane eucaristico che è il Corpo esanime del Signore nel quale è posta la potenza divina che da peccatori ci fa giusti, da estranei a Dio ci fa santi, da prigionieri e schiavi del potere delle tenebre ci fa liberi.
Perseveriamo, pertanto, nella sequela del Signore e nella progressiva spogliazione del nostro io perverso consapevoli che, dall’accettazione del nostro abbassamento, dipende il fiorire in noi della vita senza tramonto. Questa, peraltro, è la concreta testimonianza di vita che ogni fedele deve dare agli uomini del nostro tempo irretiti da una sapienza e da una forza mondane che, perciò, portano e riducono tutto al nulla (cfr. 1Corinzi 1,28) chi a esse si affida. Ci accompagni in questo cammino la preghiera che insieme abbiamo innalzato al Cielo Allo Spezzare del Pane:«Buono è il Signore con chi a lui si affida, si dona al cuore che lo ricerca. Chi si crede ricco è misero e patisce la fame, chi cerca il Signore non manca di nulla».
A. Fusi

venerdì 20 luglio 2012

707 - VIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE

Il brano di Marco 10,35-45 fa seguito al terzo annunzio della passione (vv. 32-34), evidentemente non accolto dagli Apostoli se due di essi, i fratelli Giacomo e Giovanni, si premurano di ottenere i posti d’onore accanto a Gesù nel giorno della sua manifestazione come Messia, da essi ritenuto glorioso e potente (vv. 35-37). Nella sua risposta (v. 38) Gesù li riporta a quanto aveva prima detto a proposito della sua passione e morte, considerata come un calice pieno di una bevanda amara (cfr. Salmo 74,9; Isaia 51,17-22); e come un battesimo ovvero come un’immersione nella sofferenza e nei dolori (cfr. Salmo 42,7; 69,2.15; Isaia 53,2).
Ai suoi due incauti interlocutori Gesù predice la loro partecipazione alle sue sofferenze, ma ribadisce che assegnare i posti d’onore spetta a Dio (vv. 39-40). La seconda parte del brano (vv. 41-45), allacciata alla prima dall’osservazione sulla reazione dei Dieci alle richieste dei due fratelli (v. 41), è composta da alcuni detti del Signore circa i ruoli di rango nella sua comunità occupati incredibilmente, per la normale prassi umana, da chi è pronto a essere «schiavo di tutti» (vv. 42-44). Affermazioni che trovano il loro fondamento nel comportamento del Signore che è venuto nel mondo «per servire» e il suo servizio è di andare alla morte al posto e a favore di tutti gli uomini (v. 45).
Le divine Scritture proclamate documentano e testimoniano la fedeltà di Dio alle sue promesse e alla sua alleanza con Israele, da intendere come annunzio della sua fedeltà amorevole nei confronti dell’intera umanità liberata e riscattata nella Croce del suo Figlio. Una fedeltà, quella di Dio, che non viene meno neppure in presenza di ripetuti clamorosi voltafaccia di Israele che, non tenendo viva tra le nuove generazioni la «memoria» di «tutte le grandi opere che il Signore aveva fatto in favore d’Israele» (Letttura: Giudici 2,7), arriva al punto di adottare i culti idolatrici dei popoli viciniori cosa, questa, che la Scrittura non esita ad assimilare alla prostituzione (v. 17; Salmo 105).
Un simile abbandono non poté che portare sciagure e lutti a Israele, che veniva regolarmente vinto e depredato dai suoi nemici. Eppure il Signore continuò a proteggere e a prendersi con pazienza cura del suo popolo eleggendo dodici uomini chiamati “Giudici”, che si sono succeduti dall’ingresso di Israele nella terra promessa fino alla fondazione della monarchia, per «salvarli dalle mani di quelli che li depredavano» (v. 16).
Nell’esperienza d’Israele che volta le spalle a Dio abbandonando colui che lo aveva reso un popolo con una propria terra e con una legislazione straordinaria per quei tempi, non è difficile vedere l’esperienza dell’intera umanità. Essa, mentre si consegna al servizio degli idoli che si succedono nei secoli: personaggi storici, sistemi ideologici, politici, economici, scientifici, tecnologici, appare restia ad accogliere la predicazione del «vangelo di Dio» (cfr. Epistola: 1 Tessalonicesi 2,2.8.9) che, unico, le può assicurare un’autentica duratura libertà affrancandola dalla triste condizione di violenza, di ingiustizia e di immani tragedie a cui va regolarmente incontro.
Dio, però, come per Israele, non smette di amare l’umanità pervertita dietro l’idolatria delle cose di questo mondo e giunge al punto estremo di inviare come liberatore e salvatore il suo Figlio. Egli, e questo è il dato sorprendente e inedito, compie la missione ricevuta dal Padre non nella potenza e nella gloria così come la intende il mondo, compresi i suoi apostoli (cfr. Vangelo: Marco 10,37), ma accettando di bere lui, e fino in fondo, il calice amarissimo del castigo divino che inevitabilmente si abbatte sul peccato e che, di conseguenza, toccherebbe all’umanità e di immergersi nelle acque oscure dei dolori e delle sofferenze pure ad essa destinate (cfr. v.38). Mentre adoriamo i divini disegni riguardanti la nostra salvezza in Cristo Crocifisso, riconosciamo che essa è tutta racchiusa nel “calice di benedizione” posto sull’altare.
Assumendo il Corpo e il Sangue del Signore e, dunque, il nostro “riscatto” (cfr. v.45), impariamo, con la sua Grazia, a mettere a morte l’inclinazione pestifera presente nei nostri cuori e che ci induce a ricercare la gloria mondana del potere, del dominio, del primeggiare su gli altri. La comunione al Corpo del Signore immolato per noi deve necessariamente condurci a bramare, sul suo esempio, il servizio e l’ultimo posto. È questo il comportamento degno di Dio di cui ci parla l’Apostolo (cfr. 1Tessalonicesi 2,12) e che, specialmente ai nostri giorni, è l’unico capace di far nascere nel cuore degli uomini e delle donne un interesse e un autentico ascolto del Vangelo di Dio che è il suo Figlio Crocifisso. 
A. Fusi

mercoledì 18 luglio 2012

706 - NON ABBIATE PAURA

Ti lodo, o Signore, perché ti amo.
Altissimo, tu non abbandonarmi,
perché tu sei la mia speranza.
In dono ho ricevuto la tua grazia;
è lei che mi fa vivere.

Verranno i miei persecutori,
ma non mi vedranno.
Una nube oscura cadrà sui loro occhi,
e un'aere tenebrosa li oscurerà.
Essi non avranno luce per vedere,
non potranno afferrarmi. ...

Hanno meditato un piano,
ma non è loro riuscito.
Hanno pensato cattivi progetti
ed ecco, hanno fallito.

Nel Signore è la mia speranza,
non ho timore.
Il Signore è la mia salvezza,
non ho timore.
E' come una corona sul mio capo;
non tremerò.

Quand'anche tutto l'universo tremasse,
io rimarrò fermo.
Se tutto ciò che è visibile perisse,
io non morirò.
Poiché il Signore è con me,
io sono con lui.
Alleluia!

Odi di Salomone (scritti cristiani del 2° secolo)

venerdì 13 luglio 2012

705 - VII DOMENICA DOPO PENTECOSTE

Il brano evangelico di Giovanni 16,33-17,3 riporta il versetto conclusivo dei discorsi di addio pronunciati da Gesù ai suoi discepoli nel cenacolo e i primi tre versetti del colloquio con il Padre riportato nel cap. 17. In particolare nel suo ultimo discorso Gesù vuole incoraggiare i discepoli che dovranno affrontare l’opposizione molto dura da parte del mondo che sappiamo essere posto sotto il potere del maligno e che lui, però, ha sconfitto con la sua morte sulla Croce. Avviando il suo colloquio filiale con il Padre, Gesù, che sta per affrontare l’“ora” per la quale è venuto nel mondo, gli chiede di glorificarlo nella sua piena identità di Figlio innalzato sulla Croce e Risorto, dandogli di esercitare il potere salvifico proprio di Dio e che ha il suo culmine nel dono della “vita eterna”, la partecipazione, cioè, alla vita stessa di Dio.
In questa domenica viene presentata la figura di Giosuè, successore e continuatore di Mosè come capo e condottiero del popolo. Il compito di Giosuè è quello di introdurre Israele nella terra promessa da Dio e nella quale scorre latte e miele.
In realtà la Lettura parla di una delle tante battaglie vittoriose intraprese da Giosuè contro le popolazioni residenti nella terra che Israele intende occupare. Il testo sacro tiene a evidenziare l’intervento di Dio stesso che lotta a fianco del suo popolo fino alla vittoria finale per la quale esaudisce addirittura la preghiera di Giosuè di fermare il corso naturale della luce e delle tenebre segnate dal sole e dalla luna (cfr. Giosuè 10,12-13).
In realtà Giosuè annunzia e prefigura Gesù il quale è stato mandato nel mondo per donare agli uomini la “vita eterna” ovvero per introdurli in un rapporto d’amore con Dio, riconosciuto come Padre, e con lo stesso suo Figlio, il Signore Gesù.
Per compiere la sua missione Gesù ha dovuto lottare non tanto contro uomini potenti come erano i cinque re degli Amorrei (v.6), ma contro il “maligno”, ovvero il principe di questo mondo che ha assoggettato al suo potere l’intera umanità. La sua lotta, pertanto, Gesù l’ha combattuta accettando la sua “ora” vale a dire la Croce nella quale egli è stato consegnato per giustificare e liberare dal potere del male quanti credono in lui (cfr. Epistola: Romani 8,32-33).
Su questa consegna nella quale si manifesta l’amore davvero incomprensibile di Dio per noi che è tutto nel suo Figlio, si poggia la nostra fede che non ci fa disperare di fronte alle inevitabili prove e avversità che ci vengono dal “mondo” e che Gesù ci ha preannunziato (cfr. Vangelo: Giovanni 16,33). Proprio ai nostri giorni, infatti, si registra in alcuni Paesi un accanimento immotivato contro la comunità dei credenti fino alla violenza fisica contro i suoi membri. Nel nostro ambiente culturale la guerra contro la Chiesa viene combattuta con le armi fascinose e pervasive della sofisticata propaganda che, specialmente attraverso i media, inocula nell’animo dei credenti quella mentalità materialistica e relativistica che tende a svuotare l’adesione di fede al Signore. In tutto ciò egli continua a guidare la Chiesa, suo popolo, verso la “terra promessa” che è la “vita eterna” donata fin da ora a quanti acquisiscono, mediante la fede, la superiore “conoscenza” dell’unico vero Dio e del Figlio da lui “consegnato” per la nostra salvezza. Una simile “conoscenza” che consiste nella partecipazione alla vita di comunione del Padre e del Figlio, è in verità, la “vita eterna”, la nostra “terra promessa”, il nostro paradiso. Nella nostra partecipazione al Corpo e al Sangue del Signore viene anticipata realmente e ci è dato di sperimentare concretamente la “vita eterna” quale effettiva comunione alla vita divina. Tale esperienza fa crescere in noi la certezza che «né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Romani 8, 38-39). 
A. Fusi

domenica 8 luglio 2012

704 - VI DOMENICA DOPO PENTECOSTE

In questa domenica, attraverso la vicenda di Mosè - siamo chiamati a riconoscere la presenza di Dio, che guida la storia del suo popolo. La sua promessa di salvezza accompagna la nostra esistenza e trova in Gesù, perfetto rivelatore del volto del Padre, il segno più grande del suo amore.
"Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo": è il Padre stesso che si dona nel suo Figlio, ed è ancora dono suo poterlo accogliere e testimoniare. La nostra fede, infatti, non è fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza e sapienza di Dio.
Per questo possiamo accogliere, con rinnovato impegno, l'invito di Gesù:"Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi. Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita".

martedì 3 luglio 2012

703 - SALUTI DAL BRASILE


Carissimi,
i favorevoli riscontri avuti dall’invio dei vari “Mocodoene” e su invito di coloro che ho incontrato nei giorni trascorsi in Italia, in attesa del “visto” di entrata in Brasile, ho deciso di continuare ad inviare le informazioni della nostra vita missionaria.
Vi scrivo ora da Curitiba, capitale del Paranà, stato del Brasile, dove sono giunto Lunedì 25 di giugno.
Con tutta sincerità, devo riconoscere che mi è dispiaciuto lasciare Mocodoene, ma non posso dimenticare che quando sono entrato in congregazione ho promesso di servire il Regno di Dio ovunque venissi inviato. Mi è stato chiesto dai miei superiori di “formare” i giovani che frequentano gli ultimi anni della loro preparazione al sacerdozio e alla vita religiosa. Mi sento un po’ inadeguato, ma mi affido al Signore.
Ora mi sto guardando attorno e ascoltando le persone che mi possono introdurre nella conoscenza di questo nuovo mondo per poter, dopo il tempo necessario per capire, incominciare a lavorare.
L’attività che la nostra comunità di Curitiba (siamo tre sacerdoti e una decina di religiosi studenti) è chiamata a fare in questa zona, che è la più povera della città, si articola attualmente nel servizio pastorale ad una parrocchia di oltre ottanta mila abitanti che hanno tutti i problemi di chi abita nelle periferie delle grandi città e nella formazione dei futuri religiosi brasiliani della nostra congregazione.
Legate alla parrocchia esistono già alcune attività sociali come: 1. Un progetto di prevenzione per ragazzi poveri o senza famiglia della zona. Sessanta ragazzi vengono presi in carico tutta la giornata da educatori volontari della parrocchia che tengono i contatti con gli insegnanti della scuola e nel tempo rimanente della giornata, li assistono con attività didattiche, ricreative, culturali e sportive. 2. Un progetto di recupero di una decina di giovani e adulti soggetti all’alcool e alla droga attraverso il lavoro in una piccola azienda agricola. 3. Una cucina comunitaria per soccorrere le persone più povere che dà anche una occupazione a un gruppo di donne con problemi.
Esiste una grandissima necessità di scuole di istruzione e formazione professionale. E’ un progetto che ora rimane nei nostri sogni ma a cui dovremo cercare di dare una risposta. Ora non abbiamo ancora le risorse necessarie, ma confidiamo nella Provvidenza.
Prima di chiudere mi scuso con coloro che non sono riuscito a salutare nella mia precedente permanenza in Italia. Ritornerò un paio di settimane a ottobre per la celebrazione del ventennio della nostra presenza in Milano che avrà luogo sabato 6/10 e per la canonizzazione del nostro fondatore padre Giovanni Piamarta che avverrà Domenica 21/10.
In quell’occasione spero di incontrare le persone che non sono riuscito a vedere.
Per ora vi saluto con affetto e riconoscenza ringraziandovi tutti per essermi stati vicini nella mia esperienza africana e chiedendovi di pregare per questo nuovo e delicato compito. Un saluto anche dai miei confratelli della comunità di Curitiba.
Padre Giacomo Marietti