Parrocchia S. Gerolamo Emiliani di Milano - Blog

Il Blog "Insieme per..." vuole proporre spunti di riflessione e di condivisione per costruire insieme e fare crescere la comunità della parrocchia di San Gerolamo Emiliani di Milano, contribuendo alla diffusione del messaggio evangelico.

venerdì 30 marzo 2012

668 - DOMENICA DELLE PALME. NELLA PASSIONE DEL SIGNORE

È la domenica che inaugura la settimana che la nostra tradizione liturgica ambrosiana chiama “autentica”, ovvero “santa”. In essa il cammino quaresimale viene coronato dalla celebrazione del Triduo pasquale della morte, sepoltura e risurrezione del Signore, che dispiega l’evento di salvezza che sta alla base della fede e della vita della Chiesa, vale a dire la Pasqua partecipata ai credenti nei sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Eucaristia. In questa domenica sono previste due distinte celebrazioni: la Messa per la benedizione delle Palme e la processione e la Messa “nel giorno”.

Lettura del profeta Zaccaria (9,9-10)
Si tratta dell’oracolo messianico nel quale il profeta, in un contesto di esultanza e di grande gioia per Gerusalemme e, dunque, per tutto il popolo d’Israele, annunzia la venuta di un re che godrà della protezione divina e che, a differenza degli altri sovrani, si distinguerà per la sua umiltà, di cui è segno la cavalcatura da lui scelta: «un puledro figlio d’asina» (v. 9). Egli pacificherà e riunirà il popolo in un unico regno di pace che si estenderà ad abbracciare altri popoli e altre nazioni. Questa profezia, nella comprensione di fede della Chiesa, si è compiuta con l’ingresso di Gesù in Gerusalemme acclamato come Messia.

Lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (1,15-20)
Il brano è una proclamazione di fede nel Signore Gesù e nel suo ruolo nella creazione di tutto ciò che esiste in cielo e in terra (vv. 15-17) e specialmente nella “nuova creazione”, quella del suo corpo, la Chiesa, che deve comprendere, nel progetto divino di salvezza, tutta la realtà esistente e che è stata riconciliata e pacificata «con il sangue della sua croce» (vv. 18-20). 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (12,12-16).
Il brano segue immediatamente quello dell’unzione di Gesù in casa di Lazzaro, da lui risuscitato dai morti (Gv 12,1-11) e che viene proclamato nella “Messa del giorno”. I vv. 12-13 riportano l’iniziativa spontanea della folla presente in Gerusalemme per l’imminente festa di Pasqua che va incontro a Gesù recando non semplici fronde strappate a degli alberi ma palme, simbolo di vittoria, e, rifacendosi alle Scritture (cfr. Salmo 118,25-29), lo acclama quale inviato da Dio e re d’Israele.
I vv. 14-15 mettono in luce, con il gesto di Gesù di montare su un asinello, che egli è sì il re d’Israele, ma non come i re di questa terra. Anzi, con l’esplicita citazione del profeta Zaccaria (cfr Lettura) viene chiarito che egli è il re umile e pacifico destinato a governare non un solo popolo ma tutte le genti.
Il brano si chiude al v. 16 con l’indicazione preziosa anche per noi: sarà soltanto nell’ora della sua glorificazione, ovvero della Croce, che i discepoli di allora e di sempre saranno pienamente illuminati e potranno comprendere in pienezza le parole profetiche e i fatti riguardanti il Signore.
La preghiera liturgica commenta in modo insuperabile l’evento salvifico di cui oggi si fa memoria invitando i partecipanti alla celebrazione eucaristica a condividere con le folle di Gerusalemme i gesti e le parole pieni di fede nel Signore Gesù. Così, infatti, cantiamo durante la processione con le palme appena benedette: «Venite tutti ad adorare il Re dell’universo: sei giorni mancano alla sua passione: viene il Signore nella sua città, secondo le Scritture. Accorrono lieti i fanciulli, si stendono a terra i mantelli. In alto levando l’ulivo acclamiamo a gran voce: “Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto tu sei che vieni al tuo popolo: abbi di noi pietà”».
Dal canto suo il Prefazio che avvia la Preghiera eucaristica, cogliendo il senso spirituale dell’avvenimento evangelico dell’ingresso messianico del Signore, motiva così il rendere grazie che coinvolge «qui e in ogni luogo» la Chiesa: «Tu hai mandato in questo mondo Gesù, tuo Figlio, a salvarci perché, abbassandosi fino a noi e condividendo il dolore umano, risollevasse fino a te la nostra vita».
A.Fusi

martedì 27 marzo 2012

667 - LA FORZA DELLA FAMIGLIA

Prolusione del Presidente della Cei ai vescovi italiani: a Milano una rappresentanza da ogni Diocesi
La forza della famiglia, i temi del lavoro, il valore della domenica. Sono i temi affrontati dal card. Angelo Bagnasco, presidente della Cei, nella prolusione tenuta lunedì 26 marzo a Roma al Consiglio permanente dei vescovi italiani.
Bagnasco, invitando ogni Diocesi a inviare dei rappresentanti al VII Incontro mondiale delle famiglie, ha definito l’evento “una festa, un riconoscere da ogni angolo del mondo il valore esaltante della famiglia, e le condizioni per quel riscatto antropologico che essa consente nella temperie odierna”.
Di seguito uno stralcio della prolusione che affronta nello specifico i temi della Famiglia, del lavoro e della festa.
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L’altro pilastro su cui vorremmo spendere una parola è la famiglia. Con nostro stupore sono affiorati sulla stampa nazionale temi del tipo: «La famiglia? Un fardello da cui liberarsi», in quanto creerebbe «alle persone più problemi che altro». Tesi sbalorditiva! Non basta la deriva sociale riscontrabile in Occidente – dove le prime vittime sono i figli – quale esito di una società senza riferimenti certi e con una genitorialità interpretata con approssimazione, che alcuni si ostinano a teorizzare ancora pur avendo palesemente fallito? Si può non mettere nel conto che il carattere della stabilità è esigenza intrinseca e genuina dell’amore? Sembra che ci si sia fatalmente abituati all’idea dell’usura dell’amore, per cui il sentimento va bene, ma il giuramento d’amore non più. La stabilità sarebbe sostituita – si pensa illudendosi – dall’intensità. Come poi questi sentimenti siano consapevolmente identificabili, al punto da poterli sezionare, resta un punto insondato. Non è retorica affermare che l’amore ha intrinsecamente e razionalmente in sé l’esigenza del “per sempre”. Una recentissima indagine condotta in Italia fa emergere che le persone che vivono con convinzione il loro essere famiglia sono mediamente anche le più felici. Sorgono talora difficoltà, e dinanzi agli imprevisti più gravi taluno decide purtroppo di non riprovare, ma è una resa che di per sé non cambia le esigenze che sono intrinseche al vero amore. Come non lo rafforza tutto ciò che infragilisce il matrimonio, ivi compreso il cosiddetto divorzio breve. In una cultura del tutto-provvisorio, l’introduzione di istituti che per natura loro consacrino la precarietà affettiva, e a loro volta contribuiscano a diffonderla, non sono un ausilio né alla stabilità dell’amore, né alla società stessa. La famiglia non è un aggregato di individui, o un soggetto da ridefinire a seconda delle pressioni di costume; non può essere dichiarata cosa di altri tempi. Essa affonda le proprie radici nella natura stessa dell’umano, e quindi della storia universale: vi troviamo, infatti, il vincolo dell’amore fedele, tra un uomo e una donna che si scelgono, con il sigillo della comunità, grazie al quale la famiglia stabilisce un rapporto di reciprocità virtuosa, grembo della generazione dei figli, dono e ricchezza dei genitori, come della società stessa. Diceva il Papa qualche settimana fa: «L’unione dell'uomo e della donna in quella comunità d’amore e di vita che è il matrimonio, costituisce l’unico “luogo” degno per la chiamata all’esistenza di un nuovo essere umano» (Discorso all’Assemblea della Pontificia Accademia per la vita, 25 febbraio 2012). Prima e più dei diritti veri o presunti degli adulti, ci sono i diritti dei bambini: avere un padre e una madre certi, dunque una famiglia caratterizzata non da confini precari e da tempi incerti, ma definita e permanente, nella quale imparare ad aver fiducia in se stessi e negli altri, a dare il nome giusto alle cose, a distinguere il bene e il male, a bilanciare doveri e diritti.
Né possiamo tacere – anzi, lo ripetiamo con preoccupata convinzione – il valore intrinseco della domenica, giorno nel quale non solo ci si riposa dal lavoro, ma la famiglia si ritrova insieme con ritmi più distesi, asseconda le proprie consuetudini e – se credente – partecipa con la comunità cristiana alla liturgia del Signore. Per tali valenze antropologiche, la domenica non può essere sacrificata a ragioni economiche. I valori appena ricordati, legati al giorno domenicale, appartengono all’ordine di quei beni che non sono monetizzabili, eppure appartengono al bene comune che lo Stato ha il compito di perseguire. Nel caso contrario, si perde in coesione: ma non solo come famiglie, quanto – e di conseguenza – come società tutta, che non diventa fatalmente più efficiente e produttiva, bensì meno coesa e forse solamente più agitata. Nel riposo domenicale, infatti, non s’incontrano meramente i componenti di una medesima famiglia, ma le persone e le famiglie tra loro: è la vita comune che si esprime e si rafforza nel segno dell’incontro, del riposo che ricrea, dello svago legittimo, della preghiera che rafforza, della solidarietà e del dono vicendevoli. L’incontro mondiale delle famiglie, in programma a Milano dal 30 maggio al 3 giugno, al quale ogni diocesi è sollecitata ad inviare una propria rappresentanza, sarà soprattutto una festa, un riconoscere da ogni angolo del mondo il valore esaltante della famiglia, e le condizioni per quel riscatto antropologico che essa consente nella temperie odierna.

sabato 24 marzo 2012

666 - V DOMENICA DI QUARESIMA

Il brano evangelico di Giovanni 11,1-53, ampio e impegnativo, può essere così suddiviso: i vv. 1-6 preparano il successivo racconto e ne presentano i personaggi; i vv. 7-16 riportano il dialogo tra Gesù e i discepoli incentrato sul suo ritorno in Giudea.
I vv. 17-32 collocano la scena presso il sepolcro di Lazzaro e riferiscono dell’incontro di Gesù con Marta e Maria sorelle del morto. I vv. 33-40a sono caratterizzati dalla profonda commozione e dal pianto del Signore davanti al sepolcro di Lazzaro suo amico.
Il racconto del miracolo vero e proprio occupa i vv. 40b-44 a cui fanno seguito i vv. 45-53 con la reazione dei testimoni dell’evento prodigioso e il raduno del Sinedrio per decidere di uccidere Gesù.
Il miracolo della risurrezione di Lazzaro rappresenta il culmine del progressivo cammino di fede proposto dalla Quaresima a quanti si preparano a prendere parte, nei sacramenti, alla Pasqua del Signore e a tutti i fedeli invitati a riattivare il dono di grazia già ricevuto. Al testo evangelico, pertanto, va data una speciale attenzione a partire da ciò che il Signore afferma a proposito della malattia di Lazzaro considerata come occasione per la manifestazione della gloria di Dio, ovvero del suo disegno di salvezza che dovrà rivelarsi appieno nella glorificazione del Figlio (vv.1-6). Glorificazione che per l’evangelista coincide con l’“ora” della Croce!
Gesù perciò spiega ai suoi discepoli, refrattari ad andare con lui in Giudea dove aveva già rischiato di essere ucciso (cfr. Gv 8,59; 10,31), il senso di ciò che si appresta a fare recandosi da Lazzaro oramai morto (vv.7-16). Il “risveglio” di Lazzaro, infatti, manifesterà il disegno di Dio che si compirà anche nel suo Figlio crocifisso, e spronerà ancora una volta i discepoli a credere in lui e a seguirlo.
Nel successivo incontro con Marta, sorella di Lazzaro (vv. 20-27), che professa la fede nella risurrezione «nell’ultimo giorno» e nel Maestro capace di liberare dalla morte il fratello con la sola sua presenza Gesù risponde con la solenne autorivelazione: «Io sono la risurrezione e la vita» (v. 25). Essa riguarda la potenza personale di Gesù di riportare in vita i morti come “segno” del suo potere di liberare dalla morte eterna, ossia dalla dannazione, coloro che credono in lui!
La risposta di Marta è una vera e propria professione di fede nel Signore riconosciuto come il Messia, il Figlio di Dio che viene in questo mondo per portare in esso il regno di Dio. È la fede richiesta a tutti coloro che intendono seguire Gesù, diventare suoi discepoli e per mezzo del Battesimo rinascere «ad immagine della sua risurrezione» (Orazione Dopo La Comunione). È la fede che il tempo quaresimale intende far recuperare e brillare in tutta la sua integrità nella Chiesa e in ogni singolo fedele.
L’incontro di Gesù con Maria, sopraffatta dalla tremenda realtà della morte, induce in Gesù stesso una triplice reazione così annotata: v. 33, si «commosse profondamente»; ne fu «molto turbato»; v. 35, «scoppiò in pianto». La commozione e il turbamento in Gesù dicono quanto egli avvertisse attorno a sé la terribile presenza della morte alla quale egli stesso dovrà presto andare incontro.
Le lacrime del Signore sono le lacrime di Dio davanti al potere devastante che la morte esercita sull’uomo uscito dalle sue mani, ma sono anche le lacrime di chi, come Gesù, “deve” lasciarsi avviluppare da quel potere perché si compia il disegno del Padre, quello che ora brilla nel miracolo del “risveglio” di Lazzaro che, addirittura, è morto già da quattro giorni ed è in decomposizione (v. 39). Il gesto di alzare gli occhi (v. 41) verso l’alto mette in luce la continua comunione di vita e di amore con il Padre che sempre ascolta ed esaudisce il Figlio.
Egli, pertanto, con autorità divina grida a gran voce il nome del morto al quale ingiunge di lasciare il sepolcro e di uscire incontro a lui e ordina ai presenti di liberarlo dalle bende nelle quali, forse, va visto un’allusione alla morte che Lazzaro dovrà nuovamente affrontare. Gesù invece, come riferiscono i Vangeli, lascerà il sepolcro sciolto dalle bende in cui era stato avvolto per indicare la definitività della sua risurrezione che riguarderà anche tutti coloro che credono e perseverano nella fede in lui.
Il racconto si conclude con la reazione dei testimoni dell’accaduto (vv. 45-53). Una reazione duplice: alcuni «alla vista di ciò che egli aveva compiuto» credettero. Altri invece informarono dell’accaduto «i capi dei sacerdoti e i farisei» i quali in una apposita riunione ne decretano la morte (v. 53). Di tale riunione interessano particolarmente le parole di Caifa (v. 50) e il commento che di esse ne fa l’evangelista (51-52). Egli riconosce come “ispirate” le parole dette dal sommo sacerdote che decreta la morte di Gesù per la salvezza della nazione, ossia di Israele.
In verità, quella morte, ha un’efficacia salvifica ben più ampia: riguarda infatti l’umanità intera descritta come un gregge disperso e che Gesù dovrà «riunire insieme» portando così a compimento la missione per la quale il Padre lo ha inviato nel mondo.
Collocato nel contesto del cammino quaresimale verso la Pasqua il brano evangelico va letto anzitutto come un forte appello a credere nel Signore Gesù, il quale è venuto in questo mondo rivestito della stessa potenza salvifica dispiegata a suo tempo da Dio a favore del suo popolo, come testimonia la Lettura veterotestamentaria. In essa è conservata e trasmessa la professione di fede di Israele che si riconosce come popolo in quanto Dio lo ha costituito come tale operando «segni e prodigi grandi» (Deuteronomio 6,22).
Su questa fede Israele fonda l’osservanza fedele e obbediente delle norme impartite da Dio e che deve con maggior forza fondare l’osservanza della comunità cristiana (Epistola: Efesini 5,19-20) che sa di trarre origine da ciò che il Signore Gesù ha fatto per liberare i credenti dai lacci funerei del male che tiene in potere ogni uomo e lo degrada fino alla corruzione.
La preghiera liturgica evidenzia come tutto ciò si sia attuato in noi, a livello sacramentale, nell’acqua del Battesimo, dove «la grazia divina del Cristo libera noi tutti sepolti nella colpa del primo uomo, e ci rende alla vita e alla gioia senza fine» (Prefazio I). «Vita e gioia senza fine» indicano la condizione di risurrezione e di vita nuova e immortale nella quale già da ora vive il credente.
Condizione che va mantenuta nella partecipazione al sacramento eucaristico del Corpo e del Sangue del Signore «che ci è dato per liberarci dalla schiavitù della colpa» nella quale possiamo ricadere a motivo dell’umana fragilità. Domandiamo perciò senza sosta e con umile fede che il Signore, nei suoi divini misteri, «purifichi i nostri cuori e, a immagine della risurrezione, ci riscatti da ogni antica decadenza» (Orazione dopo la Comunione).
A. Fusi

giovedì 22 marzo 2012

665 - 24 MARZO - MEMORIA DEI MARTIRI MISSIONARI

664 - MEMORIA DI MONS. OSCAR ROMERO


Mons. Oscar Romero è stato sempre per me un grande ispiratore. Non lo conoscevo personalmente, ma la notizia della sua morte, giuntami nei primi tempi del mio episcopato, mi sembrò come un messaggio dall'alto che mi indicava ciò che ci si attendeva da un vescovo. Fu soprattutto la sua morte all'altare, durante la celebrazione dell'eucaristia, che mi colpì profondamente, segnalando la stretta unità, per il prete e per il vescovo, tra la celebrazione del sacrificio eucaristico e l'offerta della propria vita.
Poi imparai a conoscere meglio monsignor Romero dai suoi scritti, e vidi che anch'egli poteva essere chiamato, come il nostro beato cardinal Ferrari "un vescovo educato dal suo popolo". Egli infatti era all'inizio piuttosto conservatore e non particolarmente scosso dalla sorte dei poveri. Ma a mano a mano che conosceva l'ambiente sociale e culturale e la situazione del suo paese si apriva alle esigenze della giustizia, fino a diventare quella voce profetica che molti ammiravano e che non pochi temevano. Quando incominciò a capire che il suo comportamento e il suo modo di parlare gli avrebbe creato dei guai e dei pericoli, non si spaventò, ma si affidò a Dio con serenità, continuando a parlare secondo ciò che la coscienza gli diceva. Fu quello il suo migliore momento creativo, quando sentiva che egli stava compiendo una missione importante per il suo popolo e la parola gli fluiva libera e spontanea dalle labbra. Mi pare quindi che la sua morte sia quella di un martire della giustizia, della verità e della carità, e benché io sia dell'avviso che non bisogna moltiplicare troppo i santi canonizzati, vedrei volentieri la sua eroicità e la sua esemplarità, soprattutto per i vescovi, riconosciute ufficialmente dalla Chiesa.
+ Carlo Maria card. Martini, 2005

martedì 20 marzo 2012

663 - APRIRE IL CUORE

Signore Gesù, ti supplichiamo, rimani sordo alla nostra preghiera lagnosa, velata di pessimismo, incapace di guardare avanti, perché non è preghiera, ma la proiezione dei nostri dubbi, delle nostre insicurezze e miopie spirituali.
Aiutaci a costruire una preghiera che sia capace di aprirsi a raggiera per inglobare tutto e tutti, colorata con i colori dell'arcobaleno.
Signore, aprici il cuore a percepire e gustare la grandezza del Padre, l'amore dello Spirito. Immersi nel dinamismo trinitario sapremo apprezzare la sapienza che regola il mondo.
Soprattutto saremo in grado di scoprire sempre quell'immagine divina che sta in ogni uomo, anche in quello indifferente, malvagio, perfino depravato.
Additaci le fonti genuine della preghiera, quella biblica, perché possiamo dirti cose che tu gradisci, quella liturgica, quella fiorita sulla bocca e dal cuore dei tuoi santi.
Concedici una preghiera festiva, ottimista perché, intrattenendoci con te, vediamo noi stessi e il mondo con i tuoi occhi e con la serena certezza che a te tutto è possibile.

venerdì 16 marzo 2012

662 - IV DOMENICA DI QUARESIMA

Lettura del libro dell’Esodo (33,7-11a)
Il brano si riferisce alla tenda fatta costruire da Dio stesso (cfr. Esodo 26,1-14) come luogo dell’incontro con il suo popolo liberato dall’Egitto e in cammino attraverso il deserto verso la terra promessa. I v. 8-10 riferiscono dell’apparizione della colonna di nube dalla quale Dio parlava con Mosè che il v. 11 definisce “amico” di Dio.
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi (4,1b-12)
Il brano riporta alcune raccomandazioni rivolte dall’Apostolo e riguardanti la condotta dei cristiani di Tessalonica. Raccomandazioni che l’Apostolo fa in nome del Signore Gesù (v. 1). Segue ai vv. 2-8 la normativa morale che Paolo fa discendere dalla vocazione alla santità recata nei credenti dal dono dello Spirito.
I vv. 9-11 insistono sull’amore fraterno già praticato nella comunità cristiana e che deve crescere sempre più. Il comportamento dei fedeli, conclude l’Apostolo, diviene in tal modo una proclamazione vissuta del Vangelo «di fronte agli estranei» (v. 12) ossia un invito a credere e a unirsi a essi.
Vangelo secondo Giovanni 9,1-38b
Il brano è strutturato in tre parti. La prima: vv. 1-12 riporta la narrazione del “miracolo” e la reazione dei presenti; la seconda: vv. 13-34 riferisce della reazione dei farisei con il duplice interrogatorio del “miracolato” (vv. 15-17; 24-34) e dei suoi genitori (vv.18-23); la terza (vv. 35-39) propone il dialogo tra Gesù e il miracolato che professa la sua fede in lui.
Nella prima parte il racconto del miracolo è preceduto dal dialogo di Gesù con i suoi discepoli convinti che la condizione del cieco dalla nascita sia dovuta a colpe commesse «da lui o dai suoi genitori» (v. 2). Gesù esclude il nesso cecità-peccato e afferma che nell’uomo nato cieco Dio manifesterà le sue “opere” che riguardano l’illuminazione del mondo mediante il suo Figlio entrato in esso come “luce” (v. 3).
La narrazione del miracolo (vv. 6-7) sorprende per i gesti di Gesù che, dopo aver fatto del fango con la sua saliva, lo spalma sugli occhi del cieco con l’ingiunzione di recarsi alla piscina di Siloe, che significa “Inviato”. Con quel gesto Gesù intende far capire che l’uomo è di per sé prigioniero delle tenebre da cui potrà essere liberato recandosi dall’“Inviato” ossia credendo in lui che è venuto nel mondo proprio per compiere tale opera.
La prima parte si chiude con la constatazione dell’avvenuta guarigione del cieco nato da parte dei conoscenti (vv. 8-12) e soprattutto con le domande sul come abbia ottenuto la vista; domande che saranno riprese drammaticamente nella seconda parte del racconto.
Questa si apre con il miracolato condotto dai farisei, esperti dottori e maestri della Legge, i quali prendono subito una posizione negativa nei confronti di Gesù il quale, «facendo del fango», ha violato il precetto fondamentale per Israele del riposo sabbatico (vv. 13-16).
Sorprende la reazione decisa del guarito nel dichiarare che Gesù è un profeta (v. 17). Con ciò l’evangelista mostra come la vera guarigione dell’uomo consiste nella sua adesione di fede in Gesù rivelatore di Dio. Il cieco che ora vede è, al contrario dei farisei che si ostinano nel rimanere chiusi all’opera di illuminazione del Signore, l’esemplare per ogni uomo che gradatamente giunge alla pienezza di luce ossia alla pienezza di fede in Lui: è «un profeta» (v. 17); «viene da Dio» (v. 33); «Figlio dell’uomo» (v. 35).
Il racconto si conclude con Gesù che volutamente va a cercare e trova il miracolato cacciato fuori dalla sinagoga (vv. 34-35) per proporgli di aderire con fede a lui che racchiude in pienezza il mistero del Figlio dell’uomo che, in verità, è il Figlio di Dio! La risposta finale del cieco che ora vede per la prima volta il Signore è una decisa professione di fede resa evidente dall’esplicita affermazione: «Credo, Signore». In tal modo il cieco nato illuminato dal Signore diviene il prototipo e l’esemplare per tutti i credenti.
La preghiera liturgica pone in luce la comprensione battesimale del testo evangelico: «Nel mendicante guarito è raffigurato il genere umano prima nella cecità della sua origine e poi nella splendida illuminazione che al fonte battesimale gli viene donata» (Prefazio I). In questo contesto l’immersione nell’acqua battesimale, evocata dalla piscina di Siloe, rappresenta il passaggio dall’oscurità totale che è l’incredulità alla grazia di vederci, ossia di pervenire alla fede che il Vangelo rende plasticamente nel cieco guarito che vede con i suoi occhi Gesù! È lui, Gesù, il Figlio, la luce vera che al credente è concesso di guardare in faccia, «a viso scoperto».
Cosa questa davvero straordinaria e mirabile se messa a confronto con l’iniziale illuminazione concessa da Dio al suo popolo con il dono della Legge secondo quanto abbiamo ascoltato nella Lettura a proposito di Mosè con il quale il Signore parlava «faccia a faccia», «come uno parla con il proprio amico» (Esodo 37,11) ma, si badi, ciò avveniva dalla nube! Quanto è detto nella pagina veterotestamentaria va inteso come un’anticipazione di ciò che Dio intende fare con ogni uomo. Tutti, infatti, credendo nel suo Inviato, in Gesù di Nazaret,potranno vederlo “faccia a faccia”.
È la concreta esperienza di quanti, avendo ricevuto il dono della fede, riconoscono che in Gesù, Dio «ha lavato la cecità di questo mondo» (Prefazio I), e ogni uomo può vedere e parlare con Dio come si parla con il proprio amico. Perciò il tempo quaresimale ci esorta a lodare, ringraziare e «con tutti i nostri sensi rendere gloria a Dio» (Prefazio I) per tale sua opera mirabile che ci impegna, però, a vivere e a comportarci in modo da piacere a Dio in tutto (Cfr. Epistola: 1Tessalonicesi).
Per questo partecipando all’Eucaristia, mentre fissiamo i nostri occhi sul Figlio morto e risorto nel quale brilla la gloria di Dio, così preghiamo: «Signore, dà luce ai miei occhi perché non mi addormenti nella morte; perché l’avversario non dica: “Sono più forte di lui”. Tu che hai aperto gli occhi al cieco nato, con la tua luce illumina il mio cuore perché io sappia vedere le tue opere e custodisca tutti i tuoi precetti» (All’Inizio dell’assemblea liturgica).
A.Fusi

venerdì 9 marzo 2012

661 - III DOMENICA DI QUARESIMA

Lettura del libro dell’Esodo (32,7-13b)
Il brano è preceduto dalla narrazione di quanto accadde nell’accampamento degli Ebrei durante la prolungata assenza di Mosè salito sul monte Sinai per ricevere da Dio le tavole del Decalogo e come essi costruirono il vitello d’oro riconosciuto come loro liberatore dall’Egitto (32,1-6).
Dio ordina a Mosè di scendere dal monte denunciando la gravissima perversione idolatrica del suo popolo (vv. 7-8) e manifestandogli la volontà di distruggerlo (vv. 9-10).
I vv. 11-13 riportano la perorazione di Mosè in favore del popolo “ricordando” a Dio il giuramento con il quale si era impegnato con i Patriarchi: Abramo, Isacco e Giacobbe di dare ad essi una «posterità numerosa come le stelle del cielo».
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Prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi (2,20-3,8)
I vv. 1-5 testimoniano l’ansia dell’Apostolo in ordine alla perseveranza nella fede dei cristiani di Tessalonica (oggi Salonicco in Grecia) città dalla quale si era dovuto allontanare precipitosamente (cfr. Atti degli Apostoli 17,1-10). Per questo scrive ad essi questa lettera per esortarli a mantenersi fedeli pur nelle prove che Paolo stesso ha dovuto subire e invia il fidato discepolo Timoteo a sincerarsi della loro perseveranza nella fede.
I vv. 6-8 manifestano la gioia dell’Apostolo sentendo il resoconto fatto da Timoteo che lo rassicura sulla tenuta della loro fede e sull’affetto che nutrono per lui.
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Vangelo secondo Giovanni (8,31-59)
Il capitolo 8 da cui è preso il brano odierno è contrassegnato dal riferimento ad Abramo come padre di Israele. Qui viene riportato l’insegnamento di Gesù nel Tempio di Gerusalemme, destinato sostanzialmente a rivelare la sua più piena identità di Figlio di Dio, partecipe cioè della natura divina del Padre. Insegnamento che suscita la reazione ostile dei Farisei ma anche un’iniziale adesione di fede da parte di “molti” che lo seguivano e lo ascoltavano.
Il brano appare diviso in due sezioni: i vv. 31-45 riguardano la necessità di credere, mentre i vv. 46-59 insistono sulla necessità di credere alla persona di Gesù. In particolare i vv. 31-36 riportano le parole del Signore «a quei Giudei che gli avevano creduto» almeno inizialmente e che ruotano attorno all’opposizione libertà/schiavitù, s’intende, dal peccato. La libertà è garantita a coloro che “rimangono” nella Parola di Gesù.
I vv. 37-40 introducono il tema di Abramo come Padre del quale, però, quelli che con orgoglio si proclamano figli, non compiono le opere, vale a dire non si pongono in quella disponibilità di fede propria di Abramo! Per questo essi non possono proclamarsi figli di Dio rifiutando di credere in Colui che è uscito da Dio ed è stato da lui inviato ma, con tale rifiuto, dimostrano di essere figli del diavolo (vv. 41-45).
Nei vv. 46-50 si insiste sul fatto che Gesù «dice la verità», in quanto, con la sua Parola, offre l’autentica e piena rivelazione di Dio, al contrario dei suoi interlocutori che, rifiutandola, preferiscono seguire la menzogna.
Di qui la solenne proclamazione del v. 51: «In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno», che costituisce un estremo appello rivolto da Gesù ai suoi interlocutori perché si aprano all’ascolto e all’osservanza fedele della sua parola che garantisce di poter sfuggire alla morte, da intendere come eterna ovvero come dannazione. Modello di un simile ascolto obbediente è proprio Gesù che, essendo il Figlio, “conosce” Dio, accoglie e osserva la sua volontà (v. 55).
Il brano si chiude con la parola di autorivelazione che il Signore pronuncia a riguardo di sé stesso: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono». Con ciò afferma che Dio, che è l’Unico, può essere trovato e riconosciuto nel Figlio e, di conseguenza, in lui è trovato e riconosciuto come Padre! A questa rivelazione anelava Abramo il quale, a motivo della sua fede, poté “vedere” il Figlio rivelatore di Dio Padre.
Il v. 59 registra infine la reazione violenta dei Giudei che, chiudendosi ostilmente al Figlio rivelatore del Padre, determinano il suo nascondersi ai loro occhi e la sua uscita dal Tempio. Tenendo conto del contesto liturgico quaresimale e letto simultaneamente con le altre lezioni bibliche oggi proclamate, il brano evangelico ha come suo fulcro la figura di Abramo, che Gesù stesso presenta come prototipo e padre di tutti coloro che accolgono la sua Parola e, perciò, compiono anch’essi l’opera propria di Abramo: quella di credere.
È l’opera essenziale nella vita di quanti aspirano con il battesimo a essere radunati in quella «moltitudine di popoli, preannunziati al patriarca come sua discendenza» (Prefazio I) ed è l’opera essenziale alla quale la Quaresima intende richiamare quelli che, già battezzati, vengono chiamati figli di Dio.
Assai istruttiva al riguardo è l’Epistola paolina, con l’esortazione ai cristiani della giovane Chiesa di Tessalonica di mantenersi fermi nella fede loro predicata e trasmessa dall’Apostolo. Esortazione quanto mai attuale anche per noi, messi ogni giorno alla prova dagli accadimenti della vita, dalla propaganda fascinosa del mondo, dalle tentazioni le più diverse e insidiose (cfr. Epistola: 1Tessalonicesi 3,3). Perseverare nella fede battesimale non è opera facile per nessuno.
Non è stato facile per il popolo d’Israele, testimone oculare dei prodigi operati da Dio per la sua liberazione e, tuttavia, capace di traviarsi e di pervertirsi nell’idolatria (Lettura). L’intercessione di Mosè a favore del popolo si è poggiata sulla parola data da Dio ad Abramo, Isacco e Giacobbe (Esodo 32,13).
Il nostro intercessore, il Signore Gesù, poggia la sua richiesta a nostro favore sulla sua fedeltà al volere del Padre e sulla sua obbedienza. Egli chiede a tutti noi, suoi discepoli, di fare altrettanto. L’ascolto umile e sincero della sua Parola è garanzia della nostra perseveranza nella fede in ogni situazione e in ogni prova.
La partecipazione alla mensa eucaristica del suo Corpo e del suo Sangue con la fede ci darà la grazia di perseverare anche nella carità, la stessa che ci viene usata dal Figlio di Dio, fedele e obbediente al Padre, pronto a dare la sua vita perché anche noi diventiamo figli!
A. Fusi

giovedì 8 marzo 2012

660 - TU, LUCE DISCRETA

Ho camminato nella notte, alla luce delle fiaccole.
Ho anticipato l'aurora ed ho affrontato le tenebre.
Talvolta mi sono lasciato guidare solo dal chiarore delle stelle e della luna.
Ma il buio più consistente, l'oscurità più densa,
mi sono piombati addosso nei momenti di smarrimento,
quando non sapevo più dove andare e cosa fare
e l'angoscia diventava una cattiva consigliera.
È allora, Gesù, che ho apprezzato la tua luce discreta
che non abbaglia e non ferisce,
la tua luce benevola che non umilia né giudica,
la tua luce misericordiosa che ridona speranza e fiducia.
Sì, tu sei la luce vera che illumina ogni uomo
ed ogni donna desiderosi di trovare la strada della vita.
Tu sei la luce che abbatte ogni pregiudizio
ed ogni sospetto e dona uno sguardo limpido,
capace di cogliere i prodigi dell'amore.
(Roberto Laurita)

venerdì 2 marzo 2012

659 - DAMMI DA BERE

Sacro Monte di Varallo Sesia
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In quel tempo. Il Signore Gesù giunse a una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio; qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice Gesù: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te». In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui. Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: “Ancora quattro mesi e poi viene la mietitura”? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato e voi siete subentrati nella loro fatica». Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».
Gv. 4,5-42

658 - II DOMENICA DI QUARESIMA

Lettura del libro del Deuteronomio (5,1-2.6-21)
Il brano vetero-testamentario è avviato dai primi due versetti del cap. 5 che rappresentano l’introduzione generale a tutta la successiva legislazione data da Dio al suo popolo compreso il decalogo (i dieci comandamenti) dei vv. 6-21.
Il comando dato da Dio di “ascoltare”, “imparare” , “custodire” e “mettere in pratica” i suoi precetti si poggia sul fatto che egli ha liberato il suo popolo dalla schiavitù d’Egitto (v. 6) e ha stabilito con esso la sua “alleanza” (v. 2).
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Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini (4,1-7)
I versetti oggi proclamati sono presi dall’inizio della seconda parte della Lettera nella quale l’Apostolo rivolge accorate esortazioni alla comunità di Efeso perché i suoi membri vivano in pienezza la chiamata alla fede (v. 1), nell’esercizio quotidiano dell’accoglienza e della reciproca carità (v. 2) per conservare il più grande tesoro: «l’unità dello spirito» (v. 3).
L’esortazione si poggia sul fatto che tutti i credenti costituiscono «un solo corpo» (v. 4) in Cristo; tutti hanno un solo Signore, «una sola fede, un solo battesimo» (v. 5) e, dunque, tutti hanno «un solo Padre» che distribuisce i doni necessari per far crescere la Chiesa (vv. 6-7).
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Lettura del Vangelo secondo Giovanni (4,5-42)
Il testo è diviso in due grandi sezioni. La prima, vv. 5-26, riporta il dialogo di Gesù con “una donna samaritana” mentre la seconda, vv. 27-42, è incentrata sulla rivelazione dell’“opera” per la quale il Padre ha inviato Gesù nel mondo. In particolare i vv. 5-7 ambientano la scena in Samaria e precisamente presso il pozzo che Giacobbe, il grande patriarca, aveva fatto scavare presso la cittadina di Sicar.
L’evangelista sottolinea che Gesù vi arrivò «affaticato per il viaggio» e nell’ora più calda del mezzogiorno (v. 6). Di qui la sua richiesta alla donna samaritana che entra in scena al v. 7. I vv. 8-15 riportano, con la risposta della donna alla richiesta di Gesù, le importanti parole del Signore sul dono dell’acqua viva capace di togliere la sete e diventare, in chi la beve, «una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna».
La prima sezione si chiude ai vv. 16-26 con una svolta nel dialogo tra Gesù e la donna alla quale viene rivelata la sua vita disordinata e traviata rispetto alla Legge di Dio (v. 18) inducendola, così, a muovere i suoi primi passi nella fede in Gesù riconosciuto dapprima come un profeta (v. 19). A Lui, uomo ispirato da Dio, pone la questione riguardante il “luogo” dove è possibile incontrare Dio: per i Samaritani era il monte Garazim mentre per i Giudei era il Tempio di Gerusalemme (vv. 20-21).
A questa domanda Gesù risponde con parole di rivelazione di grande permanente attualità e valore (vv. 23-24) con le quali elimina le diatribe legate al “luogo” in cui si deve rendere culto a Dio. Con la sua venuta nel mondo, è «venuta l’ora» in cui il culto divino è sganciato da luoghi e da templi materiali e viene invece compiuto «in spirito e verità» (vv. 23-24) ossia da quanti sono rinati dallo Spirito e si lasciano da lui guidare all’accoglienza piena di fede della Rivelazione portata da Gesù che, di conseguenza, è il Messia che, con la sua venuta svelerà ogni cosa (vv. 25-26).
Con la solenne dichiarazione messianica di Gesù: «Sono io, che parlo con te» si chiude il dialogo con la samaritana. Prende così avvio la seconda sezione (vv. 27-42) inaugurata dall’accorrere a Gesù degli abitanti di Sicar e dell’importante dialogo di Gesù con i suoi discepoli e riguardante il “cibo” con il quale egli si nutre: il compimento della volontà del Padre che lo ha inviato nel mondo per salvare il mondo (vv. 31-34).
È questa l’“opera” che il Padre ha affidato a Gesù e alla quale egli ora associa i suoi discepoli con l’invito: «Alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura» e con l’esplicito mandato missionario espresso con il verbo mietere. Essi, infatti, dovranno raccogliere l’umanità nella comunione con Dio, qui indicata con l’espressione “vita eterna” (vv. 35-38).
La conclusione (vv. 39-42) fa capire che i Samaritani che credono nel Signore «per la parola della donna» e ancora di più «per la sua parola» professando la fede in Gesù quale «salvatore del mondo», sono, in verità, primizie dell’“opera” salvifica commessa da Dio al suo Figlio e da questi ai suoi discepoli e, dunque, ai discepoli di tutti i tempi.
Il brano evangelico attende ora di essere letto nel peculiare contesto liturgico del tempo di Quaresima che ha lo scopo di preparare alla grazia del Battesimo e, per noi già battezzati, di attivarla mediante il ricorso alla Penitenza. Il battesimo è il dono inestimabile che incorpora nell’unico Corpo del Signore, mosso da un solo Spirito, animato da una sola fede. Un Corpo, quello di Cristo, nel quale tutti si riconoscono figli di un unico Padre.
È l’insegnamento che ci è stato trasmesso dagli Apostoli come testimonia l’Epistola paolina oggi proclamata. Si perviene alla grazia battesimale mediante la fede, vale a dire, nell’accoglienza di Gesù come rivelatore di Dio. La rivelazione portata agli uomini dal Figlio unigenito di Dio, porta a compimento e in tutta verità ciò che è racchiuso nell’immagine dell’“acqua viva” che Gesù promette alla donna samaritana rappresentante di tutta l’umanità “assetata”, alla ricerca cioè della felicità. Per l’Antico Testamento l’“acqua viva” indica la divina rivelazione riassunta dalla Legge e in particolare dal Decalogo (cfr. Lettura).
Quella rivelazione, però, attende di essere portata a compimento in Gesù, il Figlio di Dio venuto nel mondo e, dunque, in grado di annunciare e di rivelare Dio e il suo disegno sull’umanità: raccoglierla in unità nella partecipazione alla sua vita divina così come è raccolta la messe una volta mietuta.
È lui, dunque, il “pozzo” a cui attingere l’“acqua viva” che è la sua Parola capace di soddisfare il più profondo dei bisogni dell’uomo: avere parte alla “vita”, quella di Dio! Per questo, come giustamente interpreta la preghiera liturgica: «Cristo Signore nostro... chiedendo da bere a una donna samaritana, le apriva la mente alla fede; desiderando con ardente amore portarla a salvezza, le accendeva nel cuore la sete di Dio» (Prefazio).
È la stessa “sete” che il Signore tiene viva anche oggi in noi e nell’umanità del nostro tempo. Un’umanità che è alla continua vana ricerca di “pozzi” da cui bere l’acqua della felicità. Ogni uomo, in realtà, è un pellegrino alla ricerca del “pozzo”. Tocca a noi, discepoli del Signore che da lui beviamo ogni giorno l’”acqua viva” del suo Vangelo e del suo dono d’amore che è l’Eucaristia, tener vivo nel cuore di chi ci sta accanto il desiderio di Dio e accompagnarlo fino al “pozzo” che è Cristo Signore.
Dal suo fianco, infatti, aperto dalla lancia del soldato, è uscito nel segno del “sangue e dell’acqua” il fiume inarrestabile dell’acqua viva che opera in quanti accolgono con fede la sua parola e vengono rigenerati nel Battesimo alla grazia di figli di Dio, incorporati nella sua Chiesa abitata dallo Spirito Santo e nella partecipazione al suo Corpo e al suo Sangue nel banchetto eucaristico sperimentano la bellezza e la sovrabbondanza del dono divino che in essi diventa «una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Giovanni 4,14).
Non a caso, perciò, così cantiamo nell’antifona Alla Comunione: «Dal tuo cuore, Signore Gesù, fiumi d’acqua viva scorreranno. Ascolta pietoso il grido di questo popolo e aprici il tesoro della tua grazia che santifica il cuore dei credenti».
A. Fusi

giovedì 1 marzo 2012

657 - APOSTOLATO DELLA PREGHIERA MARZO 2012

Generale: Perché sia adeguatamente riconosciuto in tutto il mondo il contributo delle donne allo sviluppo della società.
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Missionaria: Perché lo Spirito Santo conceda perseveranza a quanti, particolarmente in Asia, sono discriminati, perseguitati e messi a morte a causa del nome di Cristo.