Parrocchia S. Gerolamo Emiliani di Milano - Blog

Il Blog "Insieme per..." vuole proporre spunti di riflessione e di condivisione per costruire insieme e fare crescere la comunità della parrocchia di San Gerolamo Emiliani di Milano, contribuendo alla diffusione del messaggio evangelico.

domenica 29 gennaio 2012

647 - «FECERO RITORNO IN GALILEA, ALLA LORO CITTÀ DI NAZARETH»

Nazareth è la scuola dove cominciamo a comprendere la vita di Gesù, la scuola del Vangelo. Qui impariamo ad osservare, ascoltare, meditare, penetrare il significato così profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio, tanto semplice, umile e bella. Forse anche impariamo, quasi senza accorgercene, ad imitarlo. ... Come vorremmo ritornare fanciulli e affidarci a questa umile e sublime scuola di Nazareth; quanto desidereremmo ricominciare, vicino a Maria, ad apprendere la vera scienza della vita e la superiore sapienza delle verità divine!...
In primo luogo una lezione di silenzio. Rinasca in noi la stima del silenzio, questa ammirevole ed indispensabile condizione dello spirito, in noi storditi da tanti frastuoni, rumori e clamori nella esagitata e tumultuosa vita del nostro tempo. Oh! silenzio di Nazareth, insegnaci il raccoglimento, l'interiorità, la disposizione ad ascoltare le buone ispirazioni e le esortazioni dei veri maestri; insegnaci quanto importanti e necessari siano il lavoro di preparazione, lo studio, la meditazione, l'interiorità della vita, la preghiera, che Dio solo vede nel segreto (Mt 6,6).
Una lezione di vita famigliare. Nazareth ci insegni cos'è la famiglia, la sua comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro ed inviolabile; ci faccia vedere com'è dolce ed insostituibile l'educazione che vi riceviamo, ci insegni la sua funzione primaria sul piano sociale.
Una lezione di lavoro. Nazareth, casa del «Figlio del falegname» (Mt 13,55): qui soprattutto vorremmo comprendere e celebrare la legge severa e redentrice della fatica umana; qui ristabilire la coscienza della nobiltà del lavoro; ricordare qui che il lavoro non può essere fine a se stesso, ma riceve la propria libertà ed eccellenza, oltre al suo valore economico, da ciò che lo volge al suo nobile fine. Qui vorremmo salutare i lavoratori di tutto il mondo e mostrar loro il grande modello, il loro divino fratello, il profeta di tutte le cause giuste che li animano, Cristo nostro Signore.
Papa Paolo VI, Omelia a Nazareth del 5/01/64

venerdì 27 gennaio 2012

646 - SANTA FAMIGLIA DI GESÙ, MARIA E GIUSEPPE

Il brano di Luca 2,41-52 conclude i racconti dell’infanzia di Gesù ed è ambientato nell’annuale viaggio che Maria e Giuseppe compivano a Gerusalemme per le feste di pasqua (v. 41) con la precisazione dell’età di Gesù, dodici anni, con la quale l’adolescente assumeva gli obblighi dell’adulto quanto all’osservanza della Legge (v. 42).
I vv. 43-45 riferiscono della volontaria permanenza di Gesù a Gerusalemme oltre i tre giorni della solennità pasquale, dell’angosciosa ricerca che di lui fanno Maria e Giuseppe, i quali decidono di ritornare a Gerusalemme. Il v. 46 parla del ritrovamento di Gesù che comincia a svolgere la sua missione di insegnare, qui addirittura ai maestri della Legge, suscitando, come precisa il v. 47, lo stupore e l’ammirazione di quanti erano testimoni di quella scena non certo usuale.
I vv. 48-49 riportano il dialogo di Gesù «con i suoi genitori», in realtà con Maria che gli manifesta tutta l’angoscia provata a causa della sua scomparsa provocando una risposta di non facile interpretazione. In essa, per la prima volta, Gesù afferma di avere Dio come Padre e di intrattenere con lui un rapporto che supera quello che lo lega alla sua famiglia terrena.
Di qui la non comprensione da parte di Maria e Giuseppe di quanto era accaduto e delle parole di Gesù (v. 50), quasi a sottolineare che anche per le persone più vicine egli resta come un enigma che si risolve nel progressivo cammino di fede in lui e nella sua parola. È quanto avviene in Maria che «custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51).
Il v. 51 ci dice ancora che Gesù dopo ciò fa ritorno a Nazaret e, come ogni bimbo di questo mondo, sta sottomesso ai suoi genitori e compie la sua formazione sotto ogni aspetto: «sapienza, età e grazia» (v. 52). Commento liturgico-pastorale Collocata nel tempo liturgico “Dopo l’Epifania”, la festività odierna illumina ulteriormente il mistero dell’incarnazione del Figlio unico di Dio evidenziandone la realtà e la concretezza. Egli infatti «venendo ad assumere la nostra condizione di uomini, volle far parte di una famiglia per esaltare la bellezza dell’ordine» creato all’inizio da Dio e «riportare la vita famigliare alla dignità alta e pura delle sue origini» (Prefazio).
Della famiglia di Gesù va messa in luce l’unicità e l’esemplarità rispetto alle nostre famiglie. L’unicità è data anzitutto dal fatto che Dio, in essa ha «collocato le arcane primizie della redenzione del mondo» (Prefazio). Essa infatti rientra nei piani divini che contemplano la venuta nel mondo del Figlio Unigenito come realizzatore delle promesse fatte a Davide di stabilire per sempre il suo trono e il suo regno ovvero di portare salvezza all’intera umanità. L’Unigenito di Dio doveva così venire nel mondo come vero uomo nascendo da una donna, la vergine Maria e, per il tramite di Giuseppe, fare parte della stirpe e della casa di Davide!
L’Epistola, assegnando a Gesù l’opera di redenzione e di liberazione degli uomini che Dio ritiene come figli, motiva l’incarnazione dell’Unigenito del Padre con la necessità di «rendersi in tutto simile ai fratelli» (Ebrei 2,17) che doveva liberare. Chiara allusione alla sua Pasqua di morte e di risurrezione e che, a ben guardare, fa da sfondo al brano evangelico oggi proclamato. Da esso risulta che tutti i componenti della famiglia di Nazaret accettano consapevolmente il volere di Dio su di essi.
Gesù in perfetta totale adesione alle “cose del Padre suo” (Luca 2,49), Maria e Giuseppe con un sì e un’obbedienza senza riserve, anche se non sempre e non subito hanno compreso ciò che Gesù «aveva detto loro» (Luca 2,50). Di qui l’esemplarità della Santa Famiglia per tutte le famiglie, così declinata nel Prefazio: «Nella casa di Nazaret regna l’amore coniugale intenso e casto; rifulge la docile obbedienza del Figlio di Dio alla Vergine Madre e a Giuseppe, l’uomo giusto a lei sposo; e la concordia dei reciproci affetti accompagna la vicenda di giorni operosi e sereni».
Potremmo dire che il segreto della Santa Famiglia è, di conseguenza, l’obbedienza alla volontà di Dio. È proprio l’accettazione della volontà di Dio e dei suoi grandiosi progetti sulla famiglia e sui suoi singoli componenti a far sì che tutte le famiglie si regolino al loro interno e nelle più ampie relazioni avendo come norma suprema «la legge dell’amore evangelico» (Orazione Dopo la Comunione).
È la legge che evidenzia la speciale vocazione della famiglia e le consente di sperimentare quei «dolci affetti» che sostengono nel non facile cammino della vita e che rendono più agevole da parte dei coniugi compiere «la loro missione di sposi e di educatori» e che inducono i figli a prestare loro quell’obbedienza che, appunto, «nasce dall’amore» (Orazione All’inizio dell’Assemblea liturgica).
A. Fusi

mercoledì 25 gennaio 2012

645 - CONFIDIAMO IN TE SIGNORE!

venerdì 20 gennaio 2012

644 - III DOMENICA DOPO L’EPIFANIA

È caratterizzata, nella nostra tradizione liturgica ambrosiana, per la proclamazione evangelica del miracolo della moltiplicazione dei pani inteso come segno epifanico del mistero di Cristo.
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Lettura: Numeri 11,4-7.16a.18-20.31-32
Il brano si riferisce al dono della manna (Esodo 16,2-31) che ogni notte cadeva sull’accampamento del popolo di Israele in marcia nel deserto dopo la liberazione dall’Egitto e l’alleanza al Sinai. I vv. 4-7 riportano le lamentele del popolo che brama di avere carne da mangiare al punto da rimpiangere la precedente condizione di schiavitù in terra egiziana.
Nei vv. 18-20 si ode il rammarico di Dio nei riguardi del suo popolo che lo ha respinto e al quale, comunque, promette che mangerà la carne tanto desiderata. I vv. 31-32a infatti descrivono il prodigio dell’arrivo sull’accampamento di un numero incalcolabile di quaglie che il popolo si affrettò a raccogliere con ingordigia «tutto quel giorno e tutta la notte e tutto il giorno dopo», come se diffidasse della prodigalità di Dio più volte sperimentata.
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Epistola: 1 Corinzi 10,1-11b
Nei primi quattro versetti l’Apostolo evoca i prodigi operati da Dio in favore del suo popolo liberato dalla schiavitù d’Egitto: la nube che li accompagnava nella loro marcia nel deserto (Esodo 13,21; 14,24) era il segno della sua presenza protettrice; il passaggio del Mar Rosso (Esodo capitoli 14 e 15); il cibo miracoloso donato da Dio: manna e quaglie (Esodo 16) così come l’acqua dalla roccia (Esodo 17 e Numeri 20) identificata dall’Apostolo nella persona di Cristo.
Il v. 5 mostra come purtroppo il popolo, pur in presenza di prodigi così grandi, non si è mantenuto fedele a Dio meritando giusta punizione. Di qui l’esortazione dell’Apostolo a non cadere negli stessi errori del popolo d’Israele andando così incontro alla punizione divina (vv. 6-11b).
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Vangelo Matteo 14,13b-21
Il brano si apre al v. 13 con la partenza di Gesù, via lago, verso «un luogo deserto» dopo aver saputo dell’uccisione di Giovanni Battista da parte del re Erode Antipa (vv. 1-12) e dove le folle tuttavia lo raggiungono. Il v. 14 mette in luce la compassione di Gesù verso la gente che lo segue che si concretizza nella guarigione dei loro malati.
Il v. 15 avvia il racconto della prima moltiplicazione dei pani ricordata dall’evangelista Matteo (cfr. 15,32-38) con il dialogo tra i discepoli e Gesù che li invita a sfamare loro stessi la folla (v. 16) e si fa portare i cinque pani e i due pesci (vv. 17-18).
La loro moltiplicazione è scandita da alcuni gesti del Signore che ritroviamo nella preghiera eucaristica: prese i cinque pani e i due pesci; alzò gli occhi al cielo; recitò la benedizione; spezzò i pani e li diede ai suoi discepoli e questi alla folla.
Il racconto si conclude ai vv. 20-21 con la constatazione dell’eccezionale numero della gente sfamata e della sovrabbondanza del gesto di Gesù: «Tutti mangiarono a sazietà»; con i pezzi avanzati vengono riempite «dodici ceste piene», numero, questo, dell’abbondanza, della completezza e della definitività del dono divino.
La tradizione orante della nostra Chiesa ambrosiana ai “segni” epifanici di Cristo quali la rivelazione ai Magi, il Battesimo al Giordano, l’acqua mutata in vino alle nozze di Cana, aggiunge in modo originale quello della moltiplicazione dei pani. A questi doni sublimi allude il Prefazio quando rivolgendosi a Dio afferma: «Nessun momento mai trascorre senza i doni del tuo amore, ma in questi giorni, dopo che abbiamo rivissuto la venuta tra noi del Signore Gesù e tutti i prodigi della redenzione, si fa più chiara e viva la coscienza delle passate gioie e dei beni presenti».
Quello della moltiplicazione dei pani è un evento cristianamente interpretato come compimento del prodigio della manna fatta piovere da Dio sul suo popolo in marcia nel deserto (vedi Lettura) e ben noto all’Apostolo Paolo che lo cita tra gli eventi dell’Esodo nell’Epistola oggi proclamata. Se nel deserto, attraverso la mediazione di Mosè, Dio viene incontro alle lamentele del suo popolo donando con la manna anche le quaglie, ora è il suo Figlio che si rivela dotato degli stessi poteri di Dio e attento alle necessità anche terrene di quanti lo seguono.
Il testo evangelico parla espressamente dell’intima compassione avvertita da Gesù per la gente che lo cerca e viene loro incontro con la guarigione dei malati e soprattutto con il dono di un cibo prodigioso da lui procurato a partire dai cinque pani e i due pesci recuperati dai discepoli. Ben si addicono perciò a lui le parole riservate a Dio: «Misericordioso e pietoso è il Signore. Egli dà il cibo a chi lo teme, si ricorda sempre la sua alleanza» (Canto Al Vangelo).
Se il gesto compiuto da Gesù si riallaccia agli eventi dell’Esodo, questi risultano ora nettamente superati in quanto il cibo da lui distribuito, a ben guardare, rimanda a un cibo non materiale che egli darà e che noi sappiamo essere il suo Corpo e il suo Sangue, nutrimento di vita eterna.
A tale interpretazione eucaristica ci spingono infatti i gesti di Gesù sottolineati con i verbi: prese i pani; alzò gli occhi al cielo; recitò la benedizione; spezzò i pani e li diede ai discepoli. Sono i gesti e i verbi che accompagnano il momento culminante di quella Cena, l’ultima, nella quale il Signore, prima di consegnarsi alla morte, per tutti noi donò se stesso come cibo e bevanda di salvezza nei segni del pane e del vino.
Con la moltiplicazione dei pani e dei pesci Gesù si rivela pertanto pari del Dio dell’Esodo, il capo e la guida non di un popolo soltanto ma dell’intera umanità. Per amore o compassione di essa, infatti, è venuto a noi dal Padre, si è chinato premuroso a guarire le ferite dell’uomo con la predicazione del Vangelo e ha donato un cibo capace di sostenerlo nel cammino attraverso il deserto di questa vita terrena sino alla vita eterna ovvero alla comunione con lui e con il Padre. Un cibo che egli continua a donare con sovrabbondanza nella sua Parola e nei santo misteri che la sua Chiesa non cessa di annunziare e celebrare.
A.Fusi

venerdì 13 gennaio 2012

643 - II DOMENICA DOPO L’EPIFANIA

Il brano evangelico di Luca 24,1-8 si premura di collocare il racconto nel terzo giorno che succede ai primi due caratterizzati dalla chiamata dei primi discepoli (vv. 35-51) e di ambientarlo in una festa di nozze nella città di Cana in Galilea senza trascurare di nominare tra gli invitati la madre di Gesù, Gesù stesso e i suoi discepoli (vv. 1-2).
I vv. 3-5 sottolineano il protagonismo della madre di Gesù che sollecita da lui un intervento a motivo dell’improvvisa mancanza di vino. L’apparente risposta negativa di Gesù che si rivolge alla madre con l’appellativo “donna”, da lui ripreso nel momento della sua morte (cfr. Giovanni 19,26), è motivata dal fatto che «non è ancora giunta la mia ora» (v. 4). L’ “ora” di Gesù è quella della sua “glorificazione” sulla Croce con il conseguente ritorno al Padre.
Di fatto Gesù interviene ordinando di riempire di acqua le anfore, di cui viene precisato il numero: sei, e la capienza: «da ottanta a centoventi litri l’una» (v. 6). Segue la constatazione da parte del direttore del banchetto della bontà del vino fatta notare allo sposo (vv. 9-10).
L’evangelista non trascura di sottolineare che colui che dirigeva il banchetto «non sapeva da dove venisse» quel vino: un non sapere, una non conoscenza che dice la necessità di aprire il cuore alla fede di Gesù, il rivelatore unico di Dio.
Il v. 11 precisa che questo «fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù» appunto per rivelare la sua identità e per sollecitare a credere in lui come hanno prontamente fatto i suoi discepoli.
In questa seconda domenica le divine scritture ci invitano a guardare a Gesù che alle nozze di Cana, mutando l’acqua in vino, dà inizio ai segni rivelatori della sua identità e sollecita l’adesione di fede in lui.
Il segno di Cana vuole espressamente dire che in Gesù, nella sua Persona, sono finalmente arrivati “i tempi messianici”. Questi sono caratterizzati dall’invito rivolto a tutte le genti a prendere parte alla gioiosa comunione di vita con Dio profeticamente significata nel «banchetto di cibi succulenti e di vini raffinati» (Cfr. Lettura) e ora possibile nel suo Unico Figlio.
La partecipazione alla vita divina ha come conseguenza lo strappo del “velo” e della “coltre” che grava sull’umanità. Si tratta del velo dell’ignoranza di Dio a motivo dell’incredulità e della coltre funerea stesa sul mondo a causa del peccato, che impedisce agli uomini di conoscerlo sperimentando il suo amore, capace di eliminare «la morte per sempre», di asciugare «le lacrime su ogni volto» di far scomparire «l’ignominia del suo popolo» (Lettura).
Tutto ciò viene da Dio conseguito con l’invio nel mondo del suo Figlio e, segnatamente, nel mistero della sua morte e risurrezione, le cui conseguenze salvifiche vengono partecipate a quanti credono in lui come hanno fatto Maria e i suoi discepoli alle nozze di Cana (Vangelo).
La fede in lui è il presupposto per andare oltre i “segni” e cogliere nel Signore “il mistero di Dio” nel quale, come scrive l’Apostolo, «sono nascosti tutti i tesori della sapienza e delle conoscenza» fino ad arrivare a credere che «È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Epistola). Sicché proprio dalla pienezza di Cristo è possibile attingere i doni divini insperati quali la comunione con Dio stesso e il conseguente superamento del dominio del male, del peccato e della morte. La preghiera liturgica ascrive tutto ciò alla “potenza” e alla “gloria eterna” ovvero al progetto di salvezza concepito da Dio Padre al quale così si rivolge: «Tu per alleviarci le fatiche della vita ci hai confortato con l’esuberanza dei tuoi doni e per richiamarci alla felicità primitiva ci hai mandato dal cielo Gesù Cristo tuo Figlio e Signore nostro» ( Prefazio).
Nella celebrazione eucaristica, mentre alimentiamo la nostra fede nel Signore, veniamo «radicati e costruiti su di lui» (Epistola) e fatti sedere al banchetto del suo corpo e del suo sangue, sperimentiamo l’esuberanza dei doni divini significati dal «Pane di vita» che ci rende «capaci di conseguire i beni eterni offerti alla nostra speranza» (Orazione Dopo la Comunione).
Alberto Fusi

lunedì 9 gennaio 2012

642 - “ALZATI E RIVESTITI DI LUCE” - 4 -

La speranza rinnovata dal dono dello Spirito
C’è un terzo aspetto che la parola profetica, oggi riascoltata, mette in luce: quello delle nazioni che sono state sempre in opposizione a Israele e che ora, invece, diventano solidalmente partecipi della salvezza annunciata a Gerusalemme.
È vero che gli stranieri possono costituire una minaccia per quella fragile comunità che si raduna nel Tempio di Gerusalemme. Eppure la promessa divina è rivolta pure a loro e anche per loro vale l’annuncio di salvezza che li convoca a partecipare del benessere di Gerusalemme e a portare al tempio del Signore l’offerta sacra.
E così la separazione tra i Giudei e i gentili è destinata a tramontare nella pienezza dei tempi. Il nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo, come scrive l’apostolo Paolo, «ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone» (Tito 2,14), un popolo solo che proviene sia dalla discendenza di Abramo sia dalle genti di tutta la terra, un popolo unico che partecipa della gloria e della promessa di Israele e che nasce dalla pace stipulata nel sangue della Croce del Signore Gesù.
Da ultimo, il profeta Isaia invita i suoi contemporanei a superare ogni motivo di delusione e di sfiducia e ad aprire la propria attesa alle prospettive che giungono da Dio. Il profeta, convinto della venuta ormai prossima della salvezza e della giustizia di Dio, ci pone di fronte a un orientamento e a un traguardo escatologico: questo è dominato da Cristo Signore che riceve l’unzione dello Spirito per portare a tutti i poveri il Vangelo della misericordia.
E’ questo vangelo della misericordia – un vangelo che si sprigiona sempre nuovo in ogni giorno e in ogni condizione della storia – che fa sbocciare in tutti noi una speranza affidabile e intramontabile: di essa dobbiamo essere testimoni convinti e gioiosi.
Sì, perché non c’è speranza senza gioia e non c’è gioia senza speranza. Si tratta di quel sentimento grandissimo sperimentato dai Magi al riapparire della stella che aveva fatto da guida al loro cammino. È la medesima gioia grandissima che deve abbracciare la nostra vita, quando decidiamo di donarla a Cristo Signore nella testimonianza della verità, della giustizia, della sobrietà e della solidarietà.
Sì, carissimi, la nostra Milano può e deve vivere questa testimonianza umana ed evangelica, nonostante le difficoltà di questo passaggio critico, anzi sentendosi da esso sfidata e incoraggiata: «Alzati, città di Milano, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te».
Cardinale Dionigi Tettamanzi, Duomo di Milano, 6 gennaio 2012

641 - “ALZATI E RIVESTITI DI LUCE” - 3 -

L’autentico culto spirituale
La vera povertà di spirito deve portare la nostra vita a diventare un “sacrificio spirituale” offerto a Dio giorno dopo giorno. Ma chi parla oggi di povertà di spirito? E lo stesso discorso sulla sobrietà non si limita forse a un problema di carenza di disponibilità di risorse economiche?
Abbiamo bisogno di scendere in profondità e di percepire come, senza la povertà di spirito, non sia possibile un vero culto gradito a Dio perché tale culto scaturisce da un cuore pronto a vivere con giustizia, disposto a porre alla base del proprio agire quotidiano la verità e il rispetto del diritto di tutti e di ciascuno, e dunque a vivere una relazione con gli altri intessuta di solidarietà e di dono di sé, di comunione e di condivisione.
Di questo culto spirituale sono a noi tutti testimoni i Magi. Amanti della verità, pur non conoscendo le Sacre Scritture di Israele, essi raggiungono la Città Santa. E qui trovano i capi dei sacerdoti e gli scribi di Gerusalemme, gente che conosce perfettamente le Scritture ma che non vede e non sa apprezzare lo sconvolgimento interiore che ha dato a questi “cercatori di Dio” la forza di abbandonare le loro lontane terre d’Oriente per mettersi alla ricerca di quel Re dei Giudei che la stella aveva loro annunciato.
Questo siamo portati a dire , con semplicità e coraggio evangelico ovvero che anche noi come cercatori e adoratori di Cristo non dobbiamo lasciarci impaurire se la cultura dominante non condivide i nostri valori morali e religiosi. Soprattutto, per difendere questi stessi valori non cerchiamo protezione presso i cosiddetti “potenti” di questo mondo. Se necessario, come i Magi, dobbiamo saper prendere un’altra strada per ritornare al nostro cuore, per ritrovare noi stessi, per onorare la nostra vera identità di persone e di figli di Dio.
In questi mesi sentiamo da più parti il grido di cristiani perseguitati in ragione della confessione della propria fede. Tuttavia, la persecuzione più subdola e imbarazzante è quella che può colpire il nostro mondo occidentale: una persecuzione che non sparge sangue, ma indurisce il cuore; non toglie la libertà con la forza, ma la fa tacere con i piaceri; non fa soffrire la fame, ma riempie il ventre di cibo procurato con l’ingiustizia e con la mancanza di condivisione.
Cardinale Dionigi Tettamanzi, 6 gennaio 2012

640 - “ALZATI E RIVESTITI DI LUCE” - 2 -

Una comunità di poveri
Nei periodi difficili e di passaggio a imperversare sono spesso l’egoismo e l’ingiustizia. Se durante l’esilio Israele era servo del Signore, ora, nel dopo-esilio, sembra che i servitori di Dio – coloro cioè che lo amano e sono giusti con il prossimo - siano emarginati da quegli altri israeliti che, nel frattempo, sono diventati potenti in Gerusalemme. E in un simile contesto la restaurazione promessa, ossia la rigenerazione morale e religiosa del popolo, si avvia sì, ma con grande difficoltà, trovando ostacolo nell’esperienza del peccato.
Eppure anche la situazione di indigenza materiale può sprigionare degli aspetti positivi. Questo accade quando c’è la consapevolezza che Dio sta vicino all’uomo dal cuore contrito e umile (cfr Isaia 57,15). Così il profeta rilegge il contenuto e il senso della propria vocazione nei termini di un’unzione dello Spirito per proclamare la buona novella ai poveri, ai cuori feriti, alle persone afflitte (cfr Isaia 61,1‑3).
Al momento della nascita di Gesù la crisi spinge Israele a riscoprire le attese più profonde, quelle religiose: se da una parte la crisi smaschera la durezza di cuore di Erode e dei sacerdoti suoi alleati, dall’altra parte mette in luce la vitalità di una comunità rinnovata, proprio a partire dai Magi venuti dall’Oriente per adorare il Re dei Giudei e sua Madre (cfr Matteo 2,1-12).
E ciò è eloquente anche per noi nel momento di crisi e di travaglio che stiamo attraversando: è un periodo che deve essere valutato non solo in base al calo dei consumi e in forza esclusivamente della legge del mercato economico. In realtà, l’essere più poveri materialmente può divenire un’occasione - faticosa ma feconda - per riscoprire che cosa significhi diventare poveri nello spirito e per renderci operosamente attenti all’immensa schiera di poveri che noi stessi abbiamo creato a causa della nostra egoistica ricchezza.
In sintesi ci è chiesto di guardare alla condiscendenza di Dio nei riguardi di tutti: egli si è fatto uomo come noi per arricchirci della sua povertà. Come scrive sant’Ambrogio: “La vocazione simultanea tanto del povero quanto del ricco ci provoca in qualche modo a sentimenti di umiltà e di uguaglianza. L’identica grazia raggiunga l’uno e l’altro, perché anche il Signore divenne povero da ricco che era, per essere lo stesso Salvatore sia dei poveri sia dei ricchi” (cfr Vespri del lunedì prima dell’Epifania).
Cardinale Dionigi Tettamanzi, 6 gennaio 2012

639 - “ALZATI E RIVESTITI DI LUCE” - 1 -

Carissimi,
nella solennità dell’Epifania la Chiesa ci fa riascoltare l’annuncio del profeta Isaia a Gerusalemme: «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te» (Isaia 60,1).
Rileviamo subito come la situazione di Gerusalemme negli anni del profeta assomigli molto ai nostri anni, che definiamo sempre più come un periodo di crisi.
Allora la popolazione della Città Santa, composta soprattutto dalle classi sacerdotali in servizio al Tempio, era stata narcotizzata da un eccessivo ottimismo, frutto di un’interpretazione semplificata e falsa di quel messaggio di speranza che lo stesso profeta aveva insistentemente trasmesso durante l’esilio: «Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata» (Isaia 40, 2).
Tutti, terminato il duro periodo dell’esilio, si aspettavano di vivere una stagione di benessere e di gloria. I decenni della ricostruzione di Gerusalemme,però, videro una profonda crisi sociale ed economica: le promesse profetiche sembravano foglie secche portate via e disperse dal vento e, per questo, tardavano a compiersi.
L’intervento dei profeti era destinato a interpretare tale ritardo, a individuarne le cause profonde - quelle morali e religiose - e a rilanciare il motivo vero da cui potesse prendere vigore la speranza. In realtà, dicevano, sono i peccati degli uomini che possono ritardare la manifestazione della salvezza di Dio. Occorre, dunque, passare da una pratica religiosa ritualistica, esteriore e spersonalizzata a una vita di relazione veramente personale con tutti, in particolare con i più poveri. Solo in questo modo il fulgore della luce divina non incontrerà più ostacoli nel suo risplendere nei cuori e nei gesti della vita quotidiana.
Così, l’autentica speranza rinasce anzitutto dall’alto, dalla condiscendenza gratuita di Dio che manifesta il suo “amore eterno”, che mai si esaurisce e sempre fedele alla promessa rivolta ad Abramo, a Mosè e a Davide, a quanti vengono chiamati “servi del Signore”. E’ quindi la conversione degli uomini la condizione per il manifestarsi della salvezza di Dio. Si tratta di una conversione che consiste nel fuggire non più da Babilonia, la città che aveva schiacciato e distrutto Gerusalemme, ma dall’ingiustizia e dall’illegalità, che avevano trasformato persino la Città Santa, al dire di Geremia, in un «covo di ladri» (cfr Geremia 7,11). Per questo il profeta esorta la propria comunità a intraprendere un grande passaggio, a compiere un vero e proprio “esodo”, a dar vita a un rinnovamento profondo che faccia del popolo di Dio  una comunità di poveri e una comunità che vive un autentico culto spirituale, una comunità capace di esprimere una relazione nuova con gli stranieri e che rende ragione di una speranza rinnovata dal dono dello Spirito.
Così si affronta la crisi. Così si dà alla crisi una risposta vera ed efficace.
Cardinale Dionigi Tettamanzi, 6 gennaio 2012

venerdì 6 gennaio 2012

638 - IL BATTESIMO DEL SIGNORE

Sacro Monte di Varallo Sesia
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La prima domenica dopo il 6 gennaio è dedicata alla celebrazione del Battesimo del Signore come “epifania” o manifestazione di Gesù quale Figlio unico di Dio e salvatore del mondo. Con questa festa si conclude il tempo liturgico di Natale e prende quindi avvio quello “Dopo l’Epifania”.
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La presente festa è da comprendere in continuità con la grande solennità dell’Epifania celebrata il 6 gennaio. Il battesimo di Gesù è, in realtà, l’evento “epifanico” per eccellenza in quanto risultano coinvolte in esso le Tre Divine Persone. La preghiera liturgica ambrosiana ama mettere in luce il ruolo delle singole Persone Divine nel battesimo al Giordano a iniziare dal Padre che in esso ha «manifestato il Salvatore degli uomini» e si è rivelato «padre della luce» (Prefazio I). Il Padre dunque è il protagonista di ciò che avviene sulle rive del Giordano. È Lui, infatti, a «schiudere i cieli» mentre il Figlio si immergeva nelle sue acque che vengono così “consacrate”. È Dio, il Padre che in esse ha «vinto le potenze del male» e ha indicato «il Figlio unigenito, su cui in forma di colomba era apparso lo Spirito Santo» (Prefazio I). Ed è proprio la solenne proclamazione e indicazione di Gesù come il Figlio, quello unico, quello amato, il vertice della rivelazione trinitaria al Giordano.
In lui si adempie la parola profetica relativa al popolo d’Israele costituito da Dio «testimone fra i popoli, principe e sovrano sulle nazioni» (Lettura). Gesù, dunque, è punto di convergenza attorno al quale nei disegni divini i popoli e le nazioni tutte della terra sono destinate a radunarsi. Si tratta di un mirabile progetto ideato nel cuore della Trinità e ora visibile e riscontrabile nettamente nel Figlio unico mandato nel mondo a portare il “compiacimento” ovvero la benevolenza di Dio del quale Egli è detentore e dispensatore.
In lui l’umanità intera che ancora oggi si presenta divisa e lacerata è destinata a diventare una sola cosa! È quanto ha scritto l’Apostolo nell’Epistola oggi proclamata: «Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini». L’Apostolo, è vero, si riferisce al popolo d’Israele , i vicini e ai popoli pagani , i lontani!
In realtà viene aperta una prospettiva di ricomposizione dell’umanità in «un solo uomo nuovo» che è appunto il Signore Gesù, anzi «in un solo corpo» che è quello formato da lui e dall’intera umanità. Di tutto ciò i credenti cominciano a fare reale esperienza nella partecipazione ai sacramenti pasquali del Battesimo e dell’Eucaristia.
L’acqua del Battesimo, da Dio benedetta «mediante la santificazione dello Spirito» offre ai credenti la remissione di ogni peccato e genera figli di Dio, destinati alla vita eterna. Ciò che avviene per quanti con fede si immergono nell’acqua battesimale è davvero straordinario: «Erano nati secondo la carne, camminavano per la colpa verso la morte; ora la vita divina li accoglie e li conduce alla gloria dei cieli» (Prefazio), che consiste esattamente nella rigenerazione a figli di Dio nell’Unico Figlio. Partecipando quindi alla mensa eucaristica del suo Corpo e del suo Sangue, «sacrificio perfetto che ha purificato il mondo da ogni colpa» (Orazione Sui Doni), osiamo domandare al Padre del cielo di renderci «fedeli discepoli del tuo Figlio unigenito perché possiamo dirci con verità ed essere realmente tuoi figli» (Orazione Dopo la Comunione). Saremo allora credibili nell’annunciare il messaggio orante che contiene il significato profondo dell’Epifania al Giordano: «Tutto il mondo è santificato nel battesimo di Cristo e sono rimessi i nostri peccati. Purifichiamoci tutti nell’acqua e nello Spirito» (Canto Alla Comunione).
Alberto Fusi

637 - APRI LA PORTA AL MONDO

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Per il VII Incontro mondiale delle famiglie servono almeno 100.000 famiglie residenti a Milano o in città vicine (al massimo a circa un’ora di tempo) che mettano a disposizione un po’ di spazio in casa loro per accogliere i pellegrini provenienti dall'Italia e dal mondo.

Un gesto di ospitalità ma anche un’opportunità per condividere momenti preziosi con chi viene da lontano. Per regalare ai propri figli un’esperienza preziosa di educazione e crescita. Magari per far nascere un'amicizia in più.

Ma quanto spazio occorre mettere a disposizione? Bisogna conoscere le lingue? Posso dare ospitalità anche se vivo da solo? Devo essere a casa tutto il giorno?

Per rispondere a queste e molte altre domande, ma soprattutto per proporre ancora tante altre motivazioni per dire di “sì”, sono in programma otto serate che si terranno in altrettante città della diocesi di Milano. Sono invitate le famiglie interessate all'accoglienza ma anche laici e sacerdoti che desiderano maggiori informazioni sulla preparazione dell'Incontro.

Alle serate interverranno i vicari delle zone pastorali e alcuni responsabili dell'organizzazione del VII Incontro mondiale delle famiglie.

A Milano l’incontro sarà il giorno 11 gennaio ore 20,45 presso l’Auditorium San Fedele, via Hoepli 3B.

giovedì 5 gennaio 2012

636 - I MAGI

Adorazione dei Magi, Esteban Murillo
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Voglio essere come i Magi.
Voglio saper scorgere, nel cielo che sembra immobile,
una stella che si accende e cammina.
Voglio essere come i Magi.
Voglio aver l’intelligenza e il coraggio di lasciare
quello che conosco per cercare ciò che è nuovo.
Voglio saper andare oltre quello che tutti dicono e fanno.
Voglio essere come i Magi.
Voglio andare contro gli Erode
che hanno paura di perdere quello che possiedono.
Voglio andare contro il partito dei sommi sacerdoti e degli scribi
che conoscono a memoria le scritture ma rimangono prigionieri delle loro posizioni.
Signore fammi essere come i Magi.
Perché tu non stai nel cielo immobile, ma dove una stella sorge e conduce lontano.
Tu non abiti nei palazzi conosciuti,
ma dove nessuno sospetta la tua umile e luminosa presenza.
(don Lasconi)

lunedì 2 gennaio 2012

635 - APOSTOLATO DELLA PREGHIERA GENNAIO 2012

Generale: Perché le vittime dei disastri naturali ricevano il conforto spirituale e materiale necessario per ricostruire la loro vita.
Missionaria: Perché l'impegno dei cristiani in favore della pace sia occasione per testimoniare il nome di Cristo a tutti gli uomini di buona volontà.
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Accanto ad amore, la pace è forse una delle parole più usate e distorte nel nostro linguaggio. In una cultura che cerca di lasciare Dio fuori da ogni ambiente, la pace è presentata come una conquista umana, dimenticando che si tratta di un dono di Dio, frutto della Redenzione compiuta da Cristo.
E' vero tuttavia che, pur essendo dono di Dio, gli uomini devono cercare la pace, devono preparare la strada per la pace. Per questo il Santo Padre Benedetto XVI ha stabilito come tema per la Giornata Mondiale della Pace 2012, “Educare i giovani alla giustizia e alla pace”, perché è convinto che i giovani, con il loro entusiasmo e la loro passione per gli ideali, possano offrire al mondo una nuova speranza.
Benedetto XVI ha sottolineato che si deve trasmettere ai giovani l’apprezzamento per il valore positivo della vita, infondendo in loro il desiderio di spenderla al servizio del bene.
Uno degli aspetti più bisognosi di riforma nella situazione attuale, è quello dell’educazione. Un'antropologia incentrata su se stessa, e che dimentica la dimensione soprannaturale dell'uomo, non può realizzare un’educazione completa. Questa visione parziale produce un’educazione che dimentica gli aspetti più essenziali dell'essere umano, provenienti dalla sua chiamata all'unione con Dio. Il Santo Padre ha ricordato la grandezza e il senso della vera educazione: l’educazione è l'avventura più affascinante e difficile della vita. Questo processo si nutre dell'incontro di due libertà, quella dell'adulto e quella del giovane. Richiede la responsabilità del discepolo, che deve essere disposto a lasciarsi guidare alla conoscenza della realtà, e quella dell’educatore, che deve essere disposto a dare tutto se stesso. Per questo sono più che mai necessari testimoni autentici, e non semplici fornitori di regole o di informazioni; testimoni che sappiano vedere più lontano degli altri, perché la loro vita abbracci spazi più ampi. Il testimone è il primo a vivere nel modo che egli propone.
Un ambito educativo di primaria importanza è la famiglia. Deve essere la prima scuola in cui si riceve l'educazione alla giustizia e alla pace. I genitori devono incoraggiare i figli con l'esempio della loro vita, perché mettano la loro speranza prima di tutto in Dio, l'unico da cui scaturisce la giustizia e la pace autentica.
I credenti in Cristo devono essere veri testimoni della pace di Cristo, una pace che viene dalle sue piaghe gloriose. Colui che vive in Cristo diventa un uomo di pace, una persona che porta ovunque la pace che sovrabbonda nel suo cuore per la misericordia di Dio.
Cristo è venuto al mondo come un piccolo Bambino. Non ha voluto venire da noi per imporre la forza della sua potenza. Ha espresso la sua gloria attraverso la piccolezza e l'umiltà della debolezza della sua carne. Egli viene come Dio guerriero ma allo stesso tempo è il Principe della Pace. Cristo è la nostra pace. La missione è l'annuncio di Cristo, della sua persona, della sua opera salvifica. Presentare Lui, vuol dire offrire al mondo il dono più sublime, il dono della pace.