Parrocchia S. Gerolamo Emiliani di Milano - Blog

Il Blog "Insieme per..." vuole proporre spunti di riflessione e di condivisione per costruire insieme e fare crescere la comunità della parrocchia di San Gerolamo Emiliani di Milano, contribuendo alla diffusione del messaggio evangelico.

sabato 30 aprile 2011

534 - BEATIFICAZIONE DI GIOVANNI PAOLO II


O Dio, mirabile nei tuoi santi,ti ringraziamo per aver donato alla Chiesa


il beato Giovanni Paolo II, papa,e per aver fatto risplendere in luila tenerezza della tua paternità,


la gloria della croce di Cristoe lo splendore dello Spirito di amore.


Egli, confidando totalmente nella tua infinita misericordiae nella materna intercessione di Maria,


ci ha dato un’immagine viva e penetrantedi Gesù Buon Pastore


e ci ha indicato la santità come misura alta della vita cristiana ordinaria


e quale strada per raggiungere la comunione eterna con te.


Ravviva in noi la memoria grata del suo insegnamento


e donaci di imitare l’esempiodella sua limpida


e tenace testimonianza,perché nessuno, a qualunque popolo appartenga,


chiuda il suo cuore alla grazia salvifica di Cristo,


unico Redentore dell’uomo. Amen.

533 - GIOVANNI PAOLO II, IL VOLTO DI UN SANTO


Un volto luminoso e bello, quello di Karol Wojtyla. Se, come insegna la Bibbia, Dio ha creato l’uomo a sua immagine, la santità è certamente un segno rivelatore, un riflesso visibile, un cammino per avvicinarsi alla Sua ineffabile bellezza. E Giovanni Paolo II aveva, anche nella vita terrena, un tratto di suo, un volto che a guardarlo apriva subito una finestra alla sua interiorità, alla radicalità della sua fede. Guardavi quel volto sorridente, quello sguardo limpido, che ti bucava il petto per l’emozione, e capivi come può essere immediato e avvolgente il mistero della santità. Se ne erano accorti in molti quando l’Habemus Papam, con un nome incomprensibile quasi fosse quello di un figlio dell’Africa, l’aveva presentato alla folla radunata davanti alla loggia della basilica di San Pietro: un volto per nulla imbarazzato, dove la debolezza era nell’italiano imperfetto, ma non nella voce forte e chiara, in quel quieto eppure coinvolgente sorriso che invitavano a lasciarsi carpire dall’amore di Cristo e per Cristo.


Quel volto asciutto e sereno, quelle braccia aperte, pronte ad accogliere, ma anche a sollecitare il nostro impegno, ci hanno accompagnato per lunghi anni. Infondevano certezze e fiducia. Annunciava in ogni parte del mondo l’intensità e la bellezza dell’amore di Dio, mai segnalando stanchezza o debolezza, anche quando la fatica o le condizioni dei luoghi l’avrebbero preteso. E quella quasi sovrumana forza fisica, quel viso aperto e mai segnato davano ancor più convinzione alle sue parole, creando un varco in cui si intravvedeva la presenza di Dio.


Nel tragitto del lungo pontificato, poi quel volto è lentamente cambiato. Suo malgrado e non solo per l’avanzare dell’età. Il volto della gioia ha rivelato anche i segni della malattia e della sofferenza. L’altro mistero che ci accompagna spesso, nella nostra vita, quello del dolore, si manifestava anche nella sua. Ma seppure qualcuno s’avvedeva dei segni premonitori su quel volto, tuttavia essi venivano sempre oscurati dalla forza interiore che ne animava i tratti. Sia pure toccato dalla malattia, era sempre lo stesso volto, a cui tutti guardavamo con fiducia: mentre pregava con un’intensità e misticismo totali davanti ad un altare; o si rivolgeva, come amico e padre, con piglio cameratesco, a milioni di giovani, nelle veglie di preghiera o nelle grandi giornate a loro dedicate; o quando scherzava sulle sue nuove infermità, e chiedeva agli stessi giovani di decidere se dovesse o no avvalersi di un bastone per camminare.


Non si avvertiva la differenza, da parte del popolo cristiano, dei mutamenti su quel volto perché mai si è interrotto il legame d’amore e di fiducia con il pastore. Anzi più il volto si trasformava e più il legame si è rafforzato. La sua sofferenza è diventata parte di noi fino a fondersi con le nostre.


Poi quel volto per un attimo si è oscurato, per sua volontà, quando si fece riprendere di spalle, poco prima della sua morte, davanti alla finestra dalla quale ogni domenica aveva parlato a milioni di pellegrini. Un suo atto d’amore, per non turbarci oltre, perché la vista di quel volto cambiato così profondamente dalla malattia sarebbe stato insopportabile per chi lo amava. Quel volto segnato non è andato perduto, sia per il popolo cristiano, sia laddove nulla della nostra umanità e della storia di ognuno viene perduto. E si fonde nel volto del Karol Wojtyla santo, ormai sull’altare delle nostre preghiere. Quello di sempre, un volto sorridente e amorevole, e che tutti abbiamo conservato nel cuore, I segni del tempo e del dolore, che avevano modificato i suoi tratti, sono volati via, nel fruscio delle pagine sulla sua bara e in quel grido, “subito santo!” che era nostalgia di lui, bisogno di non perdere il contatto, dunque un arrivederci. Perché nella casa del Padre, dove egli anelava tornare e dove ora si trova, non c’è posto che per la gioia e il sorriso. Di lì ora, come in quel suo primo giorno da Pontefice, invita a seguire anche noi la strada personale verso la santità, sull’esempio della sua vita.


di Silvano Spaccatrosi, in www.chiesadimilano.it

532 -APPARIZIONE A TOMMASO

Lettura: Atti 4,8-24a: Pietro annuncia che la guarigione del paralitico è segno di un altro mistero: facendo risorgere Gesù, Dio lo ha posto mediatore di una salvezza universale, che libera dalla paralisi del peccato. Vogliamo glorificare Dio o mettere a tacere l’annuncio pasquale?


Salmo 117: La pietra scartata dai costruttori è ora pietra angolare.


Epistola 2Colossesi 8-15: Nella domenica che ricorda la deposizione della veste bianca ricevuta nel battesimo, Paolo richiama il significato essenziale di questo sacramento. Ci immerge nella morte di Gesù per farci risorgere con lui in una vita nuova, liberato dal peccato.


Vangelo Giovanni 20,19-31: Tommaso passa dall’incredulità alla fede, fissando lo sguardo sul segno dei chiodi e sul fianco trafitto. Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto. Contemplare l’amore del Crocefisso è condizione indispensabile per credere nel vero volto di Dio.

venerdì 29 aprile 2011

531 - LA II DOMENICA DI PASQUA

Il testo evangelico di Giovanni 20,19-31 che ogni anno viene proclamato nella seconda domenica di Pasqua è di decisiva importanza per la comprensione dell’esistenza stessa della Chiesa e della sua missione. è chiaramente diviso in due parti. Nella prima (vv. 19-23) si riferisce l’apparizione del Signore risorto la sera di Pasqua. La seconda (vv. 24-29) riferisce del successivo incontro del Signore “otto giorni dopo” con la presenza dell’apostolo Tommaso. I vv. 30-31, infine, riportano alcune considerazioni finali dell’evangelista.


Il brano si apre al v. 19 con l’importante precisazione riguardante il raduno dei “discepoli” in un unico luogo, facendo capire che ciò che viene narrato riguarda la comunità ecclesiale di allora, come di oggi e di sempre. Al centro dell’attenzione c’è il Signore Gesù che si presenta ai suoi riuniti a porte chiuse “per timore dei Giudei”. Viene così evidenziato che non vi sono ostacoli e barriere che possano impedire al Signore di “stare in mezzo” alla sua Chiesa e di offrire il dono pasquale della “pace” dovuta proprio alla sua presenza. Con il Signore risorto, perciò, non c’è più timore ma “pace”.Il Signore quindi si fa riconoscere ai suoi (v. 20), mostrando “loro le mani e il fianco”, con i segni della trafittura dei chiodi e della lancia del soldato romano, facendo sgorgare la “gioia” nei loro cuori riconoscendo in lui il Maestro che videro pendere dalla croce. La prima parte si chiude con la consegna ai discepoli della specifica missione che dovranno compiere e che la Chiesa dovrà continuare lungo i tempi. A tale riguardo il Signore, “mandato” dal Padre, a sua volta “manda” i suoi discepoli, e in essi la Chiesa, a compiere la sua stessa missione, la cui efficacia è garantita dal dono dello Spirito indicato nel gesto molto espressivo del “soffio” (v:22). La missione consiste essenzialmente nell’estendere a ogni uomo l’Alleanza ovvero la comunione di vita e d’amore con Dio, frutto della Pasqua del Signore e che prevede la previa remissione e il perdono dei peccati. In tal modo la Chiesa può portare nel mondo la “vita” quella che nel Signore Gesù ha trionfato sul peccato e dunque sulla morte, nella cui oscurità giace il mondo e, in esso, l’intera umanità. La seconda parte del racconto, strettamente legata alla prima, prende avvio dalla contestazione da parte di Tommaso della “testimonianza” che gli altri discepoli sono in grado di dare in tutta verità: «Abbiamo visto il Signore!» (v.25).


Tommaso che: «non era con loro quando venne Gesù» (v. 24) rappresenta tutti coloro che, nei secoli, dovranno fidarsi e affidarsi con fede alla testimonianza che la comunità dei credenti offre su Gesù, il vivente, senza esigere perciò di “vedere” e di “mettere” personalmente la mano sulle ferite del Signore. Tommaso supererà questa pretesa “otto giorni dopo”, allorché il Signore tornerà tra i suoi augurando e recando il dono della “pace” e gli chiederà di mettere il suo dito e la sua mano nelle sue ferite esortandolo con le parole che, tramite lui, sono rivolte a ogni uomo: «non essere più incredulo, ma credente!».(v. 27). La reazione di Tommaso è quella di chi oramai è diventato “credente” in pienezza: non lo sfiora più il pensiero di mettere dito e mano sulle ferite del Signore, ma si rivolge a lui con una proclamazione di fede assoluta: «Mio Signore e mio Dio!», riconoscendo l’unità di Gesù che è il Risorto, con Dio! Le parole conclusive del Signore (v. 29) sono anch’esse rivolte, tramite Tommaso, ai futuri credenti e, dunque, anche a noi che oggi le ascoltiamo nella proclamazione liturgica dell’Evangelo. Fin da ora siamo da Gesù stesso proclamati “beati” perché crediamo in lui senza poterlo vedere e toccare. Questo lo hanno potuto fare i suoi apostoli e d’ora in poi la fede dei credenti dovrà poggiarsi sulla loro testimonianza.


La Lettura mostra come questa “missione” è stata da subito attuata dagli stessi apostoli, i quali annunziano con estrema chiarezza che: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (Atti degli Apostoli 4,12). L’esperienza che essi hanno fatto del Risorto, la missione ricevuta nel “soffio” del Signore, nella potenza cioè dello Spirito Santo è insopprimibile nei loro cuori e li spinge ad annunziare a tutti, anche a costo della vita, la reale unica possibilità di salvezza che è in Cristo Signore: «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (Atti 4,20). (Alberto Fusi)

martedì 26 aprile 2011

530 - VOGLIA DI RISORGERE


Carlo Maria Martini ci offre il suo pensiero sulla Pasqua guidandoci nel viaggio "dalla notte oscura allo scoppio di luce", un percorso che, indipendentemente dalla fede, riguarda tutti. La notte oscura, la sofferenza, la morte o la mancanza di fede sono infatti esperienze universali, sofferenze che bisogna attraversare per conoscere pienamente la vita, mentre lo scoppio di luce è "il giorno che segue la notte", lo spirito di speranza, di dedizione e di accoglienza che possiamo scorgere, anche se solo a momenti, nella vita di ogni giorno.


Meditando profondamente sull'esperienza pasquale, il cardinal Martini ci svela che la fede nella resurrezione non è una fuga dalla terra ma qualcosa che ci fa amare il tempo presente e ci fa vivere la nostra esperienza quotidiana nella fedeltà al cielo e al mondo che deve venire.


Carlo Maria Martini, Voglia di risorgere, Mondadori 2011.

domenica 24 aprile 2011

529 - IL SENSO DELLA PASQUA PER CHI NON CREDE

Mentre il Natale suscita istintivamente l’immagine di chi si slancia con gioia (e anche pieno di salute) nella vita, la Pasqua è collegata a rappresentazioni più complesse. È la vicenda di una vita passata attraverso la sofferenza e la morte, di un’esistenza ridonata a chi l’aveva perduta. Perciò, se il Natale suscita un po’ in tutte le latitudini (anche presso i non cristiani e i non credenti) un’atmosfera di letizia e quasi di spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero più nascosto e difficile. Ma tutta la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul terreno dell’oscuro e del difficile. Penso soprattutto, in questo momento, ai malati, a coloro che soffrono sotto il peso di diagnosi infauste, a coloro che non sanno a chi comunicare la loro angoscia, e anche a tutti quelli per cui vale il detto antico, icastico e quasi intraducibile, senectus ipsa morbus, «la vecchiaia è per sua natura una malattia». Penso insomma a tutti coloro che sentono nella carne, nella psiche o nello spirito lo stigma della debolezza e della fragilità umana: essi sono probabilmente la maggioranza degli uomini e delle donne di questo mondo.


Per questo vorrei che la Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello «star bene» come principio assoluto. Vorrei che il saluto e il grido che i nostri fratelli dell’Oriente si scambiano in questi giorni, «Cristo è risorto, Cristo è veramente risorto», percorresse le corsie degli ospedali, entrasse nelle camere dei malati, nelle celle delle prigioni; vorrei che suscitasse un sorriso di speranza anche in coloro che si trovano nelle sale di attesa per le complicate analisi richieste dalla medicina di oggi, dove spesso si incontrano volti tesi, persone che cercano di nascondere il nervosismo che le agita.


La domanda che mi faccio è: che cosa dice oggi a me, anziano, un po’ debilitato nelle forze, ormai in lista di chiamata per un passaggio inevitabile, la Pasqua? E che cosa potrebbe dire anche a chi non condivide la mia fede e la mia speranza? Anzitutto la Pasqua mi dice che «le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rom 8,18). Queste sofferenze sono in primo luogo quelle del Cristo nella sua Passione, per le quali sarebbe difficile trovare una causa o una ragione se non si guardasse oltre il muro della morte. Ma ci sono anche tutte le sofferenze personali o collettive che gravano sull’umanità, causate o dalla cecità della natura o dalla cattiveria o negligenza degli uomini.


Bisogna ripetersi con audacia, vincendo la resistenza interiore, che non c’è proporzione tra quanto ci tocca soffrire e quanto attendiamo con fiducia. In occasione della Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne».


Tutto questo richiede una grande tensione di speranza. Perché, come dice ancora san Paolo, «nella speranza noi siamo salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza» (Rom 8,24). Sperare così può essere difficile, ma non vedo altra via di uscita dai mali di questo mondo, a meno che non si voglia nascondere il volto nella sabbia e non voler vedere o pensare nulla. Più difficile è però per me esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. In questo mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa, che le aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (Lettera ai Romani, 4,18), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto.


È così che molti uomini hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre 2004 o dopo l’inondazione di New Orleans provocata dall’uragano Katrina nell’agosto successivo. Si pensi alle energie di ricostruzione che sorgono come dal nulla dopo la tempesta delle guerre. Si pensi alle parole che la ventottenne Etty Hillesum scrisse il 3 luglio 1942, prima di essere portata a morire ad Auschwitz: «Io guardavo in faccia la nostra distruzione imminente, la nostra prevedibile miserabile fine, che si manifestava già in molti momenti ordinari della nostra vita quotidiana. È questa possibilità che io ho incorporato nella percezione della mia vita, senza sperimentare quale conseguenza una diminuzione della mia vitalità. La possibilità della morte è una presenza assoluta nella mia vita, e a causa di ciò la mia vita ha acquistato una nuova dimensione». Per queste cose non ci si può affidare alla scienza, se non per chiederle qualche strumento tecnico: al massimo essa permette un debole prolungamento dei nostri giorni. L’interrogativo è invece sul senso di quanto sta avvenendo e più ancora sull’amore che è dato di cogliere anche in simili frangenti. C’è qualcuno che mi ama talmente da farmi sentire pieno di vita persino nella debolezza, che mi dice «io sono la vita, la vita per sempre». O almeno c’è qualcuno al quale posso dedicare i miei giorni, anche quando mi sembra che tutto sia perduto. È così che la risurrezione entra nell’esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro la possibilità di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.


Carlo Maria Martini, 15 aprile 2011

sabato 23 aprile 2011

528 - E' RISORTO



In quel tempo. Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba. Ed ecco, vi fu un gran terremoto. Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte. L’angelo disse alle donne: «Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: “È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete”. Ecco, io ve l’ho detto».


(Matteo 28, 1-7)

giovedì 21 aprile 2011

527 - VERONICA ASCIUGA IL VOLTO DI GESÙ



Lungo la Via della Croce, la pietà popolare ritrae il gesto di una donna, denso di delicatezza e venerazione, quasi una scia del profumo di Betania: Veronica asciuga il volto di Gesù. In quel Volto, sfigurato dal dolore, Veronica riconosce il Volto trasfigurato dalla gloria; nel sembiante del Servo sofferente, ella vede il Bellissimo tra i figli dell’uomo. È questo lo sguardo che suscita il gesto gratuito della tenerezza e riceve in ricompensa il sigillo del Santo Volto! Veronica c’insegna il segreto del suo sguardo di donna, «che muove all’incontro e porge l’aiuto: vedere col cuore!». Umile Gesù, il nostro è uno sguardo incapace di andare oltre: oltre l’indigenza, per riconoscere la tua presenza, oltre l’ombra del peccato, per scorgere il sole della tua misericordia, oltre le rughe della Chiesa, per contemplare il volto della Madre. Vieni, Spirito di Verità, versa nei nostri occhi «il collirio della fede» perché non si lascino attrarre dall’apparenza delle cose visibili, ma imparino il fascino di quelle invisibili!


(Meditazioni della Via Crucis al Colosseo, 22 aprile 2011)

526 - GESU' DAVANTI A PILATO



I capi dei sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a chiedere Barabba e a far morire Gesù. Allora il governatore domandò loro: «Di questi due, chi volete che io rimetta in libertà per voi?». Quelli risposero: «Barabba!». Chiese loro Pilato: «Ma allora, che farò di Gesù, chiamato Cristo?». Tutti risposero: «Sia crocifisso!». Ed egli disse: «Ma che male ha fatto?». Essi allora gridavano più forte: «Sia crocifisso!». Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto aumentava, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: «Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!». E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». Allora rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso. Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la truppa. Lo spogliarono, gli fecero indossare un mantello scarlatto, intrecciarono una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra. Poi, inginocchiandosi davanti a lui, lo deridevano: «Salve, re dei Giudei!». Sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo. Dopo averlo deriso, lo spogliarono del mantello e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero via per crocifiggerlo. (Matteo 27).
Sacro Monte di Varese - statue lignee

525 - GESU' NELL'ORTO DEGLI ULIVI

Sacro Monte di Varese

Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: "Sedetevi qui, mentre io prego". Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: "La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate". Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. E diceva: "Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu". Tornato indietro, li trovò addormentati e disse a Pietro: "Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole". (Marco 14,32-38)


Gesù, noi vorremmo seguirti sulla via della croce. Vogliamo entrare con te nell’orto degli ulivi, nel podere chiamato Getsèmani, per unire la nostra preghiera alla tua. Ma, come per i discepoli, ci è tanto difficile! Per essi c’è la stanchezza del giorno precedente, c’è il silenzio cupo della notte con gli oscuri presagi che lo accompagnano. Noi, soprattutto quando vogliamo vegliare un po’ più a lungo con Te, veniamo oppressi dai fantasmi che si agitano nei nostri cuori e che ci rendono la preghiera un peso.


Sentiamo una gran voglia di fuggire, di darci per vinti e di abbandonarci a distrazioni che ci tolgano da questo incubo. Non riusciamo a condividere il tuo spavento e la tua angoscia e soprattutto non riusciamo a sintonizzarci con la tua preghiera. Anche le tue parole sulla tentazione che incombe sono ricevute da noi con lo spirito ottuso e incapace di capire. Il sonno appesantisce le nostre membra e chiude il nostro cuore. Intanto Gesù, viene coinvolto in tutto il suo essere dalla grande e decisiva preghiera: Abbà, Padre! Ogni cosa ti è possibile, allontana da me questo calice! Però, non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi. Gesù, tu hai voluto provare fino all’ultimo la ripugnanza per la volontà del Padre, contraria alle tue attese. Anche noi sentiamo talora questa ripugnanza. Tu hai accettato di essere oppresso da una tristezza mortale. Può capitare, in certi momenti della nostra vita, di giungere fino a questo punto. Fa che non ci spaventiamo di questa resistenza che sentiamo nascere dentro. Fa che non ci arrendiamo né pensiamo che in tali frangenti è giocoforza arrendersi. È necessario stringere i denti e soprattutto confidare nella potenza dello Spirito che opera in noi. Possiamo sempre essere vittoriosi, per la forza di colui che ci ha salvati. (Card. Carlo Maria Martini)

mercoledì 20 aprile 2011

524 - IL TRIDUO PASQUALE

Il triduo è un “cammino”. Innanzitutto il cammino di Cristo nel suo mistero pasquale, un cammino che passa attraverso la passione e la croce per giungere alla gloria della risurrezione. Ma è anche il cammino della Chiesa e di ogni fedele, perché la Chiesa intera e ogni fedele sono chiamati, attraverso la celebrazione liturgica, a percorrere con Cristo questo stesso cammino, rivivendone nel mistero gli eventi di salvezza. Il triduo è davvero un “cammino di memoria: è la Chiesa che fa memoria di quegli eventi, ripercorrendone le tappe alla sequela, del suo Signore che soffre, muore e risorge. Nella liturgia “fare memoria” non è ricordare un fatto ormai passato, ma significa rendere presente e attuale per noi oggi, il mistero della passione, della morte e della risurrezione di Cristo.


Le celebrazioni in parrocchia


Giovedì santo - 21 aprile


Ore 16,30: Lavanda dei piedi per le famiglie e gli anziani


Ore 21: Messa vespertina “nella Cena del Signore” con consegna del saio e lavanda dei piedi ai comunicandi


Venerdì Santo 22 aprile – Nella Passione del Signore


Ore 8,30: Lodi con meditazione guidata


Ore 17: Vespri


Ore 21: Celebrazione della Passione del Signore e bacio della croce. Al termine: reposizione del Santissimo Sacramento in cappella e adorazione fino alle ore 24


Sabato Santo 23 aprile


Ore 8,30: Lodi con meditazione guidata


Ore 17: Vespri solenni


Ore 21: Veglia pasquale nella Notte Santa


Durante la celebrazione della veglia viene benedetta l’acqua e alla fine della celebrazione i fedeli potranno portare a casa le bottigliette di acqua benedetta


Domenica 24 aprile – DOMENICA DI PASQUA


Ore 11 Santa Messa del giorno di Pasqua

venerdì 15 aprile 2011

523 - DOMENICA DELLE PALME

Unzione di Betania - Cappella di Capiago .

Il brano di Gv. 11,55-12,11, incentrato sul racconto dell’unzione di Gesù nella casa di Lazzaro (12,1-8), è come incorniciato dai versetti iniziali 11,55-57 e quelli finali 12,9-11. I primi riportano il desiderio della gente, venuta a Gerusalemme per la festa di Pasqua, di poter incontrare Gesù, la cui fama, dopo la risurrezione di Lazzaro, si era sparsa ovunque. I versetti finali riferiscono della decisione di mettere a morte anche Lazzaro, a causa del quale molti lasciavano la Sinagoga per aderire a Gesù.


Il racconto dell’unzione è collocato nel contesto di un pranzo familiare consumato da Gesù a casa di Lazzaro e delle sorelle Marta e Maria, ardenti di fede e di amore verso di lui che si sta incamminando verso la sua Pasqua! Il pranzo può forse rappresentare la gioia della risurrezione, mentre l’unzione che Maria fa sui piedi di Gesù annunzia la sua sepoltura.


Il significato profondo del gesto di Maria, non capito da Giuda, il traditore (vv. 5-6), consiste nell’anticipare, pur senza saperlo, il gesto pieno di amore che ella avrebbe presto compiuto sul corpo esanime del Signore.

giovedì 14 aprile 2011

522 - CON LA FIDUCIA E CON L'AMORE

Ecco la mia preghiera: chiedo a Gesù di attirarmi nel fuoco del suo amore, di unirmi a lui così strettamente che in me viva e agisca lui. Sento che, quanto più il fuoco dell'amore infiammerà il mio cuore, quanto più dirò: «Attirami», tanto più le anime che si avvicineranno a me (povero piccolo detrito di ferro inutile, se mi allontanassi dalla fornace divina) correranno anch'esse rapidamente all'effluvio dei profumi del loro Amato... Mia cara Madre, adesso vorrei dirle che cosa intendo per «effluvio dei profumi» dell'Amato. Poiché Gesù è salito al cielo, posso seguire solo le tracce che egli ha lasciato, ma sono tracce così luminose, così profumate! Se appena do un'occhiata al santo Vangelo, respiro il profumo della vita di Gesù, e so da quale parte correre... Non mi slancio verso il primo posto, ma verso l'ultimo; invece di farmi avanti insieme col fariseo, ripeto, piena di fiducia, la preghiera umile del pubblicano, soprattutto seguo l'esempio della Maddalena. La sua audacia stupefacente, o piuttosto amorosa, che incanta il Cuore di Gesù, seduce il mio. Sì, lo sento, anche se avessi sulla coscienza tutti i peccati che si possono commettere, andrei, col cuore spezzato dal pentimento, a gettarmi tra le braccia di Gesù, poiché so quanto egli ami il figliuol prodigo che ritorna a lui. Non perché il Signore, nella sua misericordia preveniente, ha preservato la mia anima dal peccato mortale, io m'innalzo a lui con la fiducia e con l'amore.


Santa Teresa del Bambin Gesù

domenica 10 aprile 2011

521 - LA PAROLA DI DIO


La parola del Signore è un albero di vita che, da ogni parte, ti porge dei frutti benedetti. Essa è come quella roccia aperta nel deserto, che divenne per ogni uomo da ogni parte, una bevanda spirituale. Essi mangiarono, dice l'Apostolo, un cibo spirituale e bevvero una bevanda spirituale (1 Cor 10,3 ; Es 17,1)


Colui al quale tocca una di queste ricchezze non creda che non vi sia altro nella parola di Dio oltre a ciò che egli ha trovato. Si renda conto piuttosto che egli non è stato capace di scoprirvi se non una sola cosa fra molte altre. Dopo essersi arricchito della parola, non creda che questa venga da ciò impoverita. Incapace di esaurirne la ricchezza, renda grazie per l'immensità di essa. Rallégrati perché sei stato saziato, ma non rattristarti per il fatto che la ricchezza della parola ti supera.


Colui che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista perché non riesce a prosciugare la fonte. È meglio che la fonte soddisfi la tua sete, piuttosto che la sete esaurisca la fonte. Se la tua sete è spenta senza che la fonte sia inaridita, potrai bervi di nuovo ogni volta che ne avrai bisogno. Se invece saziandoti seccassi la sorgente, la tua vittoria sarebbe la tua sciagura. Ringrazia per quanto hai ricevuto e non mormorare per ciò che resta inutilizzato. Quello che hai preso o portato via è cosa tua, ma quello che resta è ancora tua eredità.


Sant'Efrem Siro (circa 306-373), diacono in Siria

venerdì 8 aprile 2011

520 - DOMENICA DI LAZZARO

Per poter più agilmente affrontare la lettura del brano di Giovanni 11,1-53, proponiamo la seguente suddivisione: I vv. 1-6 sono destinati a presentare la situazione e i personaggi del racconto. In primo piano ci sono ovviamente le parole con cui Gesù parla della “malattia” di Lazzaro come l’occasione perché sia manifestata la “gloria” di Dio, ovvero il suo disegno di salvezza che è destinato a rivelarsi in pienezza nella “glorificazione” di Gesù, il Figlio di Dio. “Glorificazione” che si realizzerà nell’ora della sua croce. I vv. 7-16 riportano le parole con cui Gesù spiega ai suoi discepoli, refrattari ad andare con lui in Giudea dove aveva già rischiato di essere ucciso (cfr. Gv 8,59; 10,31), il senso di ciò che si appresta a fare andando da Lazzaro oramai morto (v. 15). Il “risveglio” di Lazzaro, infatti, manifesterà il disegno di Dio che si compirà anche nel suo Figlio crocifisso, e inviterà ancora una volta i discepoli a “credere” in lui e a “seguirlo”. Segue ai vv. 20-27 e ai vv. 29-32 l’incontro di Gesù con Marta e Maria, le sorelle di Lazzaro. In particolare a Marta, che professa la fede nella risurrezione “nell’ultimo giorno” ma soprattutto la fede in Gesù capace, con la sua presenza, di liberare dalla morte, Gesù risponde con la solenne autorivelazione: «Io sono la risurrezione e la vita» (v. 25). Essa riguarda la potenza personale di Gesù di riportare in vita i morti e soprattutto di non far cadere nella morte “eterna” ossia nella dannazione coloro che credono in lui! La risposta di Marta è una piena professione di fede nel Signore come il Messia, il Figlio di Dio che viene in questo mondo per portare in esso il regno di Dio. è la fede richiesta a tutti coloro che intendono seguire Gesù, diventare suoi discepoli e per mezzo del Battesimo diventare membri della sua comunità. è la fede che il tempo quaresimale intende far recuperare e brillare in tutta la sua integrità nella Chiesa e in ogni singolo fedele. Nell’incontro di Gesù con Maria invece questa sembra come sopraffatta dalla tremenda realtà della morte che induce in Gesù stesso una triplice reazione così annotata: v. 33 si “commosse profondamente“; ne fu “molto turbato”; v. 35 “scoppiò in pianto”. La “commozione” e il “turbamento” in Gesù dicono quanto egli avvertisse attorno a sé la terribile presenza della morte alla quale egli stesso dovrà presto andare incontro. Le lacrime del Signore sono le lacrime di Dio stesso davanti al potere devastante che la morte esercita sull’uomo uscito dalle sue mani, ma sono anche le lacrime di chi, come Gesù, “deve” lasciarsi avviluppare da quel potere perché si compia il disegno del Padre, quello che ora brilla nel miracolo del “risveglio” di Lazzaro che, addirittura, è morto già da quattro giorni ed è già in decomposizione (v. 39). Il gesto di “alzare gli occhi” (v. 41) verso l’alto mette in luce la continua comunione di vita e di amore con il Padre che sempre ascolta ed esaudisce il Figlio. La narrazione del miracolo vero e proprio e destinato a suscitare la fede in lui occupa soltanto due versetti: 43 e 44. Gesù grida a gran voce il nome del morto al quale ingiunge di lasciare il sepolcro e di uscire incontro a lui; e ai presenti ordina di liberarlo dalle bende, nelle quali va forse vista un’allusione alla morte che Lazzaro dovrà nuovamente affrontare. Gesù invece lascerà il sepolcro sciolto dalle bende in cui era stato avvolto per indicare la definitività della sua risurrezione e della vita cosa che riguarderà anche tutti coloro che perseverano e credono in lui. La narrazione del miracolo vero e proprio e destinato a suscitare la fede in lui occupa soltanto due versetti: 43 e 44. Gesù grida a gran voce il nome del morto al quale ingiunge di lasciare il sepolcro e di uscire incontro a lui; e ai presenti ordina di liberarlo dalle bende, nelle quali va forse vista un’allusione alla morte che Lazzaro dovrà nuovamente affrontare. Gesù invece lascerà il sepolcro sciolto dalle bende in cui era stato avvolto per indicare la definitività della sua risurrezione e della vita cosa che riguarderà anche tutti coloro che perseverano e credono in lui. Il brano si conclude con la reazione dei testimoni dell’accaduto (vv. 45-53). Una reazione duplice: alcuni «alla vista di ciò che egli aveva compiuto» credettero. Altri invece informarono dell’accaduto «i capi dei sacerdoti e i farisei» i quali in una apposita riunione ne decretano la morte (v. 53). Di tale riunione interessano particolarmente le parole di Caifa (v. 50) e il commento che di esse ne fa l’evangelista (51-52). Egli riconosce come “ispirate” le parole dette dal sommo sacerdote e che rivelano la destinazione della morte di Gesù in vista della “salvezza” della nazione giudaica e, a partire da essa, destinata a radunare «insieme i figli di Dio che erano dispersi», realizzando così la missione “pastorale” che Gesù è venuto a compiere sulla terra: chiamare e radunare nella comunione con lui e con il Padre tutti i popoli della terra insieme con il popolo d’Israele Collocato nel contesto del graduale cammino quaresimale verso la Pasqua, il brano evangelico va letto anzitutto come un appello potente a credere nel Signore Gesù, il quale è venuto in questo mondo rivestito della stessa potenza salvifica dispiegata a suo tempo da Dio stesso a favore del suo popolo. Quella “gloria” che Dio dimostra contro il Faraone d’Egitto deciso a sterminare il suo popolo (Lettura: Esodo 14,17-18) e che si concretizzò nell’inaudito prodigio della divisione delle acque del Mar Rosso, è la “gloria” che Dio manifesta nel suo Figlio che viene posto davanti al potere non di un tiranno, ma a quello invincibile della “morte”. Il “risveglio” di Lazzaro dalla morte manifesta che «la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l'Egitto» (Es 14,31a) continua a operare nel suo Figlio Gesù. Davanti al prodigio del Mar Rosso «il popolo temette il Signore e credette in lui» (Es 14,31b). Davanti alla risurrezione di Lazzaro “alcuni” credettero in Gesù e tra questi vanno annoverate le due sorelle, i discepoli e alcuni giudei presenti al miracolo. La fede in Cristo che richiama alla vita i morti e che è soprattutto in grado di liberare dalla “morte eterna” è ciò che viene chiesto a tutti noi che ci diciamo di Cristo! La “morte eterna” è la nostra terribile nemica ed è indotta in noi a causa del peccato, come ci avverte l’Apostolo nell’Epistola (Efesini 2,1). Il fremito interiore, il turbamento e le lacrime del Signore sono certamente dovute alla morte corporale di Lazzaro, alla quale Gesù stesso sta per andare incontro. Ma esse sono dovute all’annuncio tremendo che questa morte rappresenta: quello della morte eterna o dannazione, dalla quale solo la mano potente di Dio ci può preservare e, di fatto, ci ha preservato nel suo Figlio: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo» (Efesini 2,4-5).


La preghiera liturgica evidenzia come tutto ciò si sia già attuato in noi a livello sacramentale nell’acqua del Battesimo dove: «la grazia divina del Cristo libera noi tutti sepolti nella colpa del primo uomo, e ci rende alla vita e alla gioia senza fine» (Prefazio I). Il sacramento eucaristico poi «che ci è dato per liberarci dalla schiavitù della colpa» nella quale purtroppo cadiamo a motivo dell’umana fragilità: «purifichi i nostri cuori e, a immagine della risurrezione, ci riscatti da ogni antica decadenza» (Orazione dopo la Comunione).


A. Fusi

mercoledì 6 aprile 2011

519 - CANTATE AL SIGNORE

lunedì 4 aprile 2011

518 - CONDIVISIONE DELLA CROCE

Proposta credibile, proposta umana?


Non si è discepoli se non si dice di no a se stessi (questo significa condividere la croce) per dire di sì a Dio, al suo volere, alla concezione della vita come dono di se stessi, vivendo come Gesù Cristo.


Essere discepoli e condividere la croce sono due cose equivalenti. L’essere discepoli ci fa vivere in un modo che, portato alle estreme conseguenze, è quello che ci appare nel crocifisso: sono le due dimensioni dell’abbandono fiducioso in Dio e della dedizione ai fratelli.


Si può anche accettare di essere discepoli, perché non ci pensiamo troppo bene e ci pare che non ci inquieti più di tanto. Ma quando si dice che c’è una equivalenza tra essere discepoli e condividere la croce, allora sorge la domanda: questo condividere la croce è una proposta umana o disumana?


(G. Moioli, La parola della croce, 2009)

517 - PREGHIERA DAVANTI ALLA CROCE

Signore Gesù, su questa nostra terra, terra irrorata dal sudore dell’uomo,


terra bagnata dal sangue, terra percorsa dall’amore e dall’odio,


è stata piantata la tua croce,strumento di violenza che ti ha reso immagine di dolore e di morte.


Rifiutato dalle folle, abbandonato dagli amici,confuso con i criminali, spogliato della tua dignità,


torturato nel corpo e nell’anima,tu sei sceso fino in fondo nel baratro della sofferenza


e dell’annullamento là dove sembra che anche Dio sia lontano.


Eppure le tue braccia, inchiodate alla croce,restano aperte per accogliere tutti.


Eppure la tua bocca proferisce solo parole di perdono


e promesse di felicità.


Signore Gesù, la tua storia continua nella litania quotidiana di tradimenti,


di rifiuti, di infedeltà, di soprusi,di vendette che percorrono questo mondo.


Davanti alla tua croce, nuovo ed uguale segno di questa storia che non vuol cambiare,


noi avvertiamo più acutamente la tragedia dei popoli poveri del mondo.


In essi la tua passione continua ancora.


E non finiscono gli oltraggi le distruzioni, i crimini quotidiani,


le sofferenze inferte ai più deboli e agli infermi.


Davanti a te e a tutti i crocifissi del mondo dopo l’ultimo colpo di lancia,


dopo l’ultima azione bellica, dopo l’ultima violenza gratuita sugli innocenti,


noi ti imploriamo per tutti gli uomini


e specialmente per quelli che usano il potere delle armi per offendere,


per umiliare, per imporre il loro potere.


Fa' che i loro occhi si aprano sul male commesso


sulle conseguenze devastanti delle guerre, sui lutti e sulle rovine, sulla disperazione dei popoli.


Apri una breccia nel loro cuore perché nei volti sfigurati degli oppressi


riconoscano le sembianze del tuo Cristo,


nel sangue delle vittime, il sangue che cade dalla sua croce,


perché lui è fratello di ogni creatura che soffre. Amen.

venerdì 1 aprile 2011

516 - IV DOMENICA DI QUARESIMA 2011

Duomo di Milano, vetrata del XIX secolo .

Lettura di Esodo 34,27-35,1: L’incontro con Dio e l’obbedienza alla sua parola, l’intima relazione di amicizia con lui trasformano la nostra vita, rendendola luminosa. Il ministero della luce divina non solo guarisce i nostri occhi, ma ci rende anche partecipi del suo stesso splendore.


Salmo 35: Signore, nella tua luce vediamo la luce.



Epistola 2Corinzi 3,7-18: L’esperienza di Mosè non è che un’anticipazione provvisoria di quanto si compie in Gesù. In Lui ogni velo interposto alla comunione con Dio viene rimosso. Possiamo stare davanti a Dio a viso scoperto, lasciando che egli imprima in noi la sua immagine.


Vangelo Giovanni 9,1-38b: Il cieco giunge a vedere dopo essersi lavato nelle acque battesimali della piscina dell’Inviato, obbedendo alla parola di Gesù. Chi si ostina a non credere, pretende di sapere tutto di Gesù e di giudicarlo, si condanna ad una cecità ancor maggiore.

515 - DOMENICA DEL CIECO NATO 2011

Il brano evangelico di Giovanni 9,1-38b, oltre a indicare che con Gesù sono stati inaugurati i “tempi messianici” con riferimento a Isaia 29,18; 35,5; 42,7, ha in sé stesso una portata simbolica evidente: il “cieco dalla nascita” che ora vede rappresenta l’uomo illuminato dalla fede.


Il brano è strutturato in tre parti. La prima: vv. 1-12 riporta sostanzialmente la narrazione del “miracolo” e la reazione dei presenti; la seconda: vv. 13-34 riporta la reazione dei farisei con il duplice interrogatorio del “miracolato” (vv. 15-17; 24-34) e dei suoi genitori (vv. 18-23); la terza (vv. 35-39), ovvero la parte conclusiva, riporta il dialogo tra Gesù e il miracolato che professa la sua fede in lui.


In particolare nella prima parte il racconto del miracolo è preceduto dal dialogo di Gesù con i suoi discepoli convinti che la condizione del cieco fin dalla nascita sia dovuta a colpe commesse «da lui o dai suoi genitori» (v. 2). Non abbiamo da Gesù una risposta esplicita sul problema della sofferenza e specialmente della sofferenza “innocente”. Il cieco nato, in questo caso, offre a Gesù l’occasione per manifestare, con la sua guarigione, che Dio “opera” nel mondo e la sua opera è quella di “illuminare” il mondo e, in esso, ogni uomo che di per sé «giace nelle tenebre e nell'ombra di morte» mediante il suo Figlio.


La narrazione del miracolo (vv. 6-7) sorprende per il gesto compiuto da Gesù nel fare del fango con la sua saliva e nello spalmarlo sugli occhi del cieco con l’ingiunzione di recarsi alla piscina di Siloe di cui viene detto il significato: “Inviato”. In realtà con il suo incomprensibile gesto Gesù fa capire che l’uomo è di per sé prigioniero delle “tenebre” da cui può essere liberato se si recherà dall’“Inviato” ossia da Gesù stesso che è venuto nel mondo proprio per compiere tale opera.


La prima parte si chiude con la constatazione dei conoscenti dell’avvenuta guarigione del cieco nato (vv. 8-12) e soprattutto con le domande sul “come” lui ha ottenuto la vista; domande che saranno riprese drammaticamente nella seconda parte del racconto. Questa si apre con il miracolato condotto dai Farisei, esperti dottori e maestri della Legge, i quali prendono subito una posizione negativa nei confronti di Gesù, dal momento che egli, “facendo del fango”, ha violato il precetto fondamentale per Israele del “riposo” sabbatico.


Sorprende la reazione decisa del guarito nel dichiarare che Gesù è “un profeta” (v. 17). Con ciò l’evangelista mostra come la vera guarigione dell’uomo consiste nella sua adesione di fede in Gesù rivelatore di Dio. Il cieco che ora vede è, al contrario dei Farisei che si ostinano nel rimanere chiusi all’opera di illuminazione del Signore Gesù, l’esemplare per ogni uomo che gradatamente giunge alla pienezza di luce, ossia alla pienezza di fede in Gesù: è “un profeta” (v. 17); “viene da Dio” (v. 33); “Figlio dell’uomo” (v. 35).


Il racconto si conclude con Gesù che volutamente va a cercare e “trova” il miracolato cacciato fuori dalla Sinagoga (vv. 34-35) per proporgli un’adesione alla sua persona che racchiude in pienezza il mistero del “Figlio dell’uomo” che, in verità, è il Figlio di Dio!


La risposta finale del cieco, che ora vede per la prima volta Gesù, è una decisa adesione di fede in lui resa evidente dall’esplicita affermazione: «Credo, Signore». In tal modo il cieco nato, illuminato dal Signore, diviene il prototipo e l’esemplare per tutti i “credenti”.


La preghiera liturgica pone in luce la comprensione “battesimale” del testo evangelico: «Nel mendicante guarito è raffigurato il genere umano prima nella cecità della sua origine e poi nella splendida illuminazione che al fonte battesimale gli viene donata» (Prefazio I). In questo contesto l’immersione nell’acqua battesimale, evocata dalla piscina di Siloe, rappresenta il passaggio dall’oscurità totale che è l’incredulità alla grazia di “vederci” ossia di pervenire alla fede, che il Vangelo rende plasticamente nel cieco guarito il quale vede con i suoi occhi Gesù!


È questi, il Figlio, la “luce vera” che al credente è concesso di guardare in faccia, “a viso scoperto”. Cosa davvero straordinaria e mirabile se messa a confronto con l’iniziale “illuminazione” concessa da Dio al suo popolo con il dono della Legge dato a Mosè.


A tale proposito l’Apostolo richiamando l’evento proclamato nella Lettura, mentre riconosce l’autenticità della prima rivelazione a Mosè, resa evidente dallo splendore che irradiava dal suo volto (cfr. Esodo 34,29), ne dichiara anche la sua condizione effimera e di provvisorietà rispetto alla rivelazione portata dal Signore Gesù nella potenza dello Spirito (Epistola: 2Corinzi 3,7-8).


Tutti noi che abbiamo avuto il dono della fede e, dunque, siamo in grado di riconoscere che in Gesù Dio «ha lavato la cecità di questo mondo» (Prefazio I), veniamo esortati in questo tempo quaresimale a lodare, ringraziare e «con tutti i nostri sensi rendere gloria a Dio» (Prefazio I) per tale sua “opera”.


Lo faremo se «rifletteremo come in uno specchio la gloria del Signore» al punto da venire «trasformati in quella medesima immagine» (2Corinzi 3,18) dando così la nostra testimonianza pronta e vera a lui con la nostra parola e la nostra vita.


Per questo partecipando all’Eucaristia, mentre fissiamo i nostri occhi sulla gloria di Dio che è il suo Figlio morto e risorto, così preghiamo: «Signore, dà luce ai miei occhi perché non mi addormenti nella morte; perché l’avversario non dica: “Sono più forte di lui”. Tu che hai aperto gli occhi al cieco nato, con la tua luce illumina il mio cuore perché io sappia vedere le tue opere e custodisca tutti i tuoi precetti» (All’Inizio dell’assemblea Liturgica).


A. Fusi