Parrocchia S. Gerolamo Emiliani di Milano - Blog

Il Blog "Insieme per..." vuole proporre spunti di riflessione e di condivisione per costruire insieme e fare crescere la comunità della parrocchia di San Gerolamo Emiliani di Milano, contribuendo alla diffusione del messaggio evangelico.

giovedì 31 marzo 2011

514 - APOSTOLATO DELLA PREGHIERA APRILE 2011

Generale: Perché la Chiesa sappia offrire alle nuove generazioni, attraverso l'annuncio credibile del Vangelo, ragioni sempre nuove di vita e di speranza.

Missionaria: Perché i missionari, con la proclamazione del Vangelo e la testimonianza di vita sappiano portare Cristo a quanti ancora non lo conoscono.

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Nella sua omelia pronunciata il 9 marzo scorso, Mercoledì delle Ceneri, il Santo Padre Benedetto XVI ha sottolineato la necessità che i cristiani siano un messaggio vivente, attraverso la loro testimonianza evangelica. Molti uomini oggi non hanno altro contatto con il Vangelo, se non quello che passa attraverso la vita e la parola dei seguaci di Cristo. Così San Paolo scriveva ai cristiani che essi sono una lettera di Cristo, scritta con lo Spirito del Dio vivente (cfr 2 Cor 3, 3). Anni addietro si poteva parlare di un buon numero di paesi segnati dalla fede in Cristo, e la missione si intendeva indirizzata soprattutto verso quei paesi in cui non era ancora giunto il messaggio del Vangelo. Oggi è comune incontrare ogni giorno, nella società occidentale, persone che non hanno sentito parlare di Cristo. Quindi si impone una rinnovata consapevolezza della dimensione missionaria di tutta la Chiesa, di tutti i battezzati. Questa attività missionaria deve essere effettuata non solo con le parole, ma anche con la testimonianza. In questo senso, Giovanni Paolo II affermava: “L'uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri, più all'esperienza che alla dottrina, più alla vita e ai fatti che alle teorie. La testimonianza della vita cristiana è la prima e insostituibile forma della missione: Cristo, di cui noi continuiamo la missione, è il «testimone» per eccellenza (Ap 1,5); (Ap 3,14) e il modello della testimonianza cristiana. Lo Spirito santo accompagna il cammino della Chiesa e la associa alla testimonianza che egli rende a Cristo. (Gv 15,26). La prima forma di testimonianza è la vita stessa del missionario della famiglia cristiana e della comunità ecclesiale, che rende visibile un modo nuovo di comportarsi. Il missionario che, pur con tutti i limiti e difetti umani, vive con semplicità secondo il modello di Cristo, è un segno di Dio e delle realtà trascendenti. Ma tutti nella Chiesa, sforzandosi di imitare il divino Maestro, possono e debbono dare tale testimonianza, che in molti casi è l'unico modo possibile di essere missionari”. (Redemptoris Missio, 42). In definitiva gli annunciatori di Cristo devono essere convinti del suo Vangelo e devono cercare di viverlo. “Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7, 21). Non bastano le parole, è necessaria la vita, la testimonianza. La storia dimostra che dove ci sono testimoni autentici, si suscita la fede. Testimonianze come quella della Beata Teresa di Calcutta o di Giovanni Paolo II, hanno suscitato una corrente di freschezza evangelica laddove sono passate. Ma non si può testimoniare Cristo se non siamo davvero uniti a Lui. "Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me" (Gv 15,4). La prossima beatificazione di Giovanni Paolo II sarà anche un modo di mettere davanti agli occhi di tutta la Chiesa il modello di un uomo davvero dedito a Cristo, che seppe fare dell'Eucaristia il centro della sua vita che visse, specialmente gli ultimi anni, abbracciato amorevolmente alla croce del suo Signore. Nell'omelia del suo funerale, l'allora Cardinale Ratzinger ricordava: "Alzatevi, andiamo!" è il titolo del suo penultimo libro. "Alzatevi, andiamo!" con queste parole ci ha risvegliato da una fede stanca, dal sonno dei discepoli di ieri e di oggi. "Alzatevi, andiamo!" dice anche oggi a noi. Il Santo Padre è stato poi sacerdote fino in fondo, perché ha offerto la sua vita a Dio per le sue pecore e per l’intera famiglia umana, in una donazione quotidiana al servizio della Chiesa e soprattutto nelle difficili prove degli ultimi mesi. Così è diventato una sola cosa con Cristo, il buon pastore che ama le sue pecore. (Card. J.Ratzinger, omelia dell’8 aprile 2005). La sua testimonianza ha suscitato la fede in molti. Cerchiamo di essere missionari come Lui! (Agenzia Fides 30/03/2011)

lunedì 28 marzo 2011

513 - IL PRIMATO DI DIO

Se ci domandiamo: perché la Quaresima? Perché la Croce? La risposta, in termini radicali, è questa: perché esiste il male, anzi, il peccato, che secondo le Scritture è la causa profonda di ogni male. Ma questa affermazione non è affatto scontata, e la stessa parola “peccato” da molti non è accettata, perché presuppone una visione religiosa del mondo e dell’uomo. In effetti è vero: se si elimina Dio dall’orizzonte del mondo, non si può parlare di peccato. Come quando si nasconde il sole, spariscono le ombre; l’ombra appare solo se c’è il sole; così l’eclissi di Dio comporta necessariamente l’eclissi del peccato. Perciò il senso del peccato – che è cosa diversa dal “senso di colpa” come lo intende la psicologia – si acquista solo riscoprendo il senso di Dio.


(Benedetto XVI, Angelus 13 marzo 2011)

sabato 26 marzo 2011

512 - TERZA DOMENICA DI QUARESIMA 2011

Lettura Esodo 34,1-10: dopo l’idolatria del vitello d’oro, Dio rinnova l’alleanza con il suo popolo. Il peccato non arresta il progetto di Dio: Dio rivela in modo più profondo il suo nome,che è misericordia, e promette meraviglie inaudite.

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Salmo 105: Salvaci Signore nostro Dio.

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Epistola ai Galati 3,6-14: La legge non fa che rivelare la nostra ingiustizia e non è in grado di liberarci dal peccato. Come testimonia la storia di Israele, il popolo è incapace di rimanere fedele all’alleanza. Solo la fede in Gesù ci comunica la giustizia stessa in cui visse Abramo.

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Vangelo Giovanni 8,31-59: in questo dialogo con i Giudei, Gesù offre una profonda rivelazione di se stesso, assumendo il nome stesso di Dio: Io Sono. Compiere l’opera di Abramo significa credere in Gesù e nella sua parola, che ci libera dalla schiavitù della menzogna e del peccato.

venerdì 25 marzo 2011

511 - LA DOMENICA DI ABRAMO

Il brano evangelico di Giovanni 8,31-59 riporta l’insegnamento di Gesù nel tempio di Gerusalemme e destinato sostanzialmente a rivelare la sua più piena identità di Figlio di Dio, partecipe cioè della natura divina del Padre. Insegnamento che suscita la reazione dei Farisei ma anche un’iniziale adesione di fede da parte di “molti” che lo seguivano e lo ascoltavano. Occorre, inoltre, ricordare che tutto il capitolo è come contrassegnato dal continuo riferimento ad Abramo come “padre” del popolo d'Israele.

Il testo, per comodità di lettura, lo dividiamo in due sezioni. La prima vv. 31-45 è incentrata sulla necessità di “credere” e la seconda sezione (vv. 46-59) sulla necessità di credere alla persona di Gesù. In particolare i vv. 31-36 riportano le parole di Gesù «a quei Giudei che gli avevano creduto» almeno inizialmente e che ruotano attorno all’opposizione “libertà/schiavitù”, s’intende, del peccato. La “libertà” è garantita a coloro che “rimangono” nella Parola di Gesù.

I vv. 37-40 introducono il tema di Abramo come Padre del quale, però, quelli che con orgoglio si proclamano “figli”, non compiono le opere, vale a dire non si pongono in quella disponibilità di fede propria di Abramo! Per questo essi non possono proclamarsi addirittura “figli” di Dio rifiutando di credere in colui che è “uscito” da Dio ed è stato da lui “inviato”, ma, con tale rifiuto, dimostrano, in verità, di essere figli del diavolo (vv. 41-45). Nei vv. 46-50 si insiste sul fatto che Gesù “dice la verità”, reca cioè con la sua Parola l’autentica e piena rivelazione di Dio al contrario dei suoi interlocutori che rifiutando la sua parola di “verità” preferiscono seguire la menzogna.

Di qui la solenne proclamazione del v. 51: «In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno», che costituisce un estremo appello rivolto da Gesù ai suoi interlocutori perché si aprano all’ascolto e all’osservanza fedele della sua parola che garantisce di sfuggire alla “morte”. Modello di un simile ascolto obbediente è Gesù che, essendo il Figlio, “conosce” Dio, accoglie e osserva la sua volontà (v. 55).

Il brano si chiude con la parola di autorivelazione che Gesù pronuncia a riguardo di sé stesso: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono». Con ciò il Signore afferma che Dio, che è l’Unico, può essere trovato e riconosciuto nel Figlio e, di conseguenza, è trovato e riconosciuto come Padre! A questa rivelazione “anelava” Abramo che, a motivo della sua fede, poté “vedere” e gioire del Figlio rivelatore di Dio Padre!

Il v. 59 registra infine la reazione violenta dei giudei che chiudendosi ostilmente al Figlio rivelatore del Padre, determinano il suo “nascondersi” ai loro occhi e la sua “uscita” dal tempio.

Tenendo conto del contesto liturgico quaresimale e, letto, simultaneamente con le altre lezioni bibliche oggi proclamate, il brano evangelico ha come fulcro la figura di Abramo che Gesù stesso presenta come prototipo e padre di tutti coloro che accolgono la sua Parola e, perciò, compiono anch’essi l’ “opera” propria di Abramo: la fede!

L’Epistola al riguardo afferma che «figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede» ed ereditano così quella “benedizione” con la quale fu “benedetto” da Dio (cfr. Galati, 3,7-9) e che fluisce su coloro che credono attraverso Cristo crocifisso.

È lui, infatti, che con la sua croce ci libera dalla “maledizione” dovuta all’incredulità e al peccato. Nell’ora della croce il Signore Gesù ha offerto sé stesso a Dio come intercessore a favore degli uomini sui quali, come già su Israele pur liberato dall’Egitto, grava l’“ira” di Dio (Lettura: Esodo 32,10). La sua intercessione, però, diversamente da quella di Mosè in favore del solo popolo d’Israele (Esodo 32,11-13) riguarda l’intera umanità che ieri, come oggi, purtroppo, non tarda “ad allontanarsi dalla via” indicata da Dio (Esodo 32,8).

La Quaresima, pertanto, chiede a tutti noi di riattivare il dono battesimale della “fede” che si poggia esclusivamente su ciò che il Signore Gesù ha compiuto, perché su tutti noi passasse la “benedizione di Abramo” e ricevessimo la promessa dello Spirito, che ci fa “figli” di Dio e ci raduna in quella «moltitudine di popoli, preannunziati al patriarca come sua discendenza» che noi chiamiamo Chiesa (Prefazio I).

Per questo veniamo esortati a fare le “opere” di Abramo che consistono in un reale “ascolto” della Parola, in una sua cordiale “accoglienza” capace di tradursi in una fedele “osservanza” e obbedienza. L’Eucaristia domenicale è il luogo privilegiato per una simile esperienza che, attende, però, di essere prolungata concretamente nella vita di ogni giorno.

È quanto umilmente e fiduciosamente chiediamo: «O Dio,che per la forza dello Spirito Santo iscrivi indelebilmente nel cuore dei credenti la santità della tua legge, donaci di crescere nella fede, nella speranza e nell’amore perché, conformandoci sempre al tuo volere, ci sia dato di conseguire un giorno la terra della tua promessa» (All’inizio dell’Assemblea Liturgica 2).

A.Fusi

mercoledì 23 marzo 2011

510 - RESTARE NELLA SPERANZA - XIX GIORNATA DI PREGHIERA E DIGIUNO IN MEMORIA DEI MISSIONARI MARTIRI

Il 24 marzo - giorno dell’assassino di monsignor Oscar Arnulfo Romero, in Salvador, nel 1980 - la Chiesa Italiana celebra la giornata di preghiera e digiuno facendo memoria dei missionari martiri e di quanti ogni anno sono stati uccisi solo perché incatenati a Cristo. La ferialità della loro fede fa di questi testimoni delle persone a noi vicine, modelli accessibili, facilmente imitabili. Don Gianni, Direttore Nazionale della Fondazione Missio fa una riflessione sul tema della XIX Giornata: RESTARE NELLA SPERANZA.

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Il tema della speranza è stato rivisitato spesso nell’ultimo decennio con esplicito riferimento al nostro continente europeo: lo si è fatto per segnalare che la speranza sembra lasciare i nostri paesi e le nostre città, che i giovani rischiano sempre più di consegnarsi all’“attimo fuggente” privo di futuro, che le stesse comunità cristiane si ripiegano al loro interno senza annunciare più il futuro di Dio, che solo può illuminare il presente.

Arruolare i martiri sotto il segno della speranza è certamente un’impresa ardita: il martire è per definizione colui che vede interrotta in maniera brusca una parabola di vita, spesso un’esistenza densa di sapienza, di amore, di dono di sé. Il martire in ogni caso porta con sé uno scandalo, come una prova fatale che Dio propone a lui, ai suoi amici, alla comunità che assiste attonita alla sua eliminazione. Se è un missionario pare che la missione stessa si blocchi.

Il martire tuttavia non resiste solo nella memoria commossa di chi lo ha conosciuto o nel ricordo dei suoi gesti e insegnamenti: il martire resiste in Cristo . In tal modo diventa segno e fonte di speranza: non ci istruisce tanto la sua morte, ma la vita che prima ha vissuto in nome e per conto del Vangelo e ora la vita che sperimenta nel suo compimento, cioè nella relazione salda e definitiva con Gesù, il Crocifisso Risorto.

Questo sguardo – che i teologi qualificano come “escatologico” – non isola il martire, ma lo restituisce ai suoi amici, a chi lo ha conosciuto, a chi ne sente parlare. Non solo il suo passato, ma anche il suo presente è giudizio sul nostro cammino di Chiesa e di missione, è sostegno nelle difficoltà, è regola di vita su ciò che i cristiani devono fare o evitare. Nello scandalo dell’apparente assenza, il martire diventa fondatore di nuove speranze, sorgente di fiducia, messaggio che supera il tempo e lo spazio, Parola preziosa per rinnovare la Missione.

don Gianni Cesena

Direttore Nazionale Fondazione Missio

martedì 22 marzo 2011

509 - VOGLIO VIVERE PER CRISTO

“Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.

Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico. (…) Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora — in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan — Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire.

Non provo alcuna paura in questo Paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, finché avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. (…).

Più leggo il Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario. Nostro Signore ha detto: «Vieni con me, prendi la tua croce e seguimi».

I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro. Per cui cerco sempre d’essere d’aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati. Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani, qualunque sia la loro religione, vadano considerati innanzitutto come esseri umani. (…). Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarLo senza provare vergogna”.

Dal testamento del ministro federale per le minoranze religiose, il cattolico Shahbaz Bhatti, ucciso il 2 marzo 2011 all’età di 42 anni nella capitale pachistana Islamabad da un gruppo di uomini armati.

venerdì 18 marzo 2011

508 - LA DOMENICA DELLA SAMARITANA

Diamo anzitutto uno sguardo al brano evangelico di Giovanni 4,5-42 così come si presenta a una prima osservazione per poi inquadrarlo nel peculiare contesto liturgico quaresimale. Il testo è chiaramente diviso in due grandi sezioni. La prima: vv. 5-26 riporta il dialogo di Gesù con “una donna samaritana” mentre la seconda: vv. 27-42 è incentrata sulla rivelazione dell’“opera” per la quale il Padre ha inviato Gesù nel mondo.

In particolare i vv. 5-7 ambientano la scena in Samaria, una regione considerata “deviata” dalla vera fede di Israele e precisamente presso il pozzo che Giacobbe, il grande patriarca, aveva fatto scavare presso la cittadina di Sicar. L’evangelista sottolinea che Gesù vi arrivò “affaticato per il viaggio” e nell’ora più calda del “mezzogiorno”.

Non meraviglia, perciò, che lui richiedesse da bere alla donna samaritana che, nel frattempo, era giunta al pozzo. I vv. 8-15 riportano, con la risposta della donna, le parole di rivelazione sul dono “dell’acqua viva” capace di togliere la “sete” e diventare, in chi la beve, «una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna».

Se per Israele “l’acqua viva” simboleggia la divina rivelazione che si riassume nella Legge come ci ricorda la Lettura odierna che riporta il Decalogo dato da Dio a Mosé sul monte Sinai (Esodo 20,2-24), possiamo dire che per noi “l’acqua viva” è la rivelazione fatta da Gesù, superiore a quella della Legge, in grado di spegnere la “sete” più profonda che c’è nel cuore di ogni uomo, la sete di Dio, di aver parte per sempre alla sua vita. è quanto viene autorevolmente detto nella preghiera del Prefazio: «Cristo Signore nostro,... chiedendo da bere a una donna samaritana, le apriva la mente alla fede; desiderando con ardente amore portarla a salvezza, le accendeva nel cuore la sete di Dio».

La prima sezione si chiude ai vv. 16-26 con una svolta nel dialogo tra Gesù e la donna, alla quale viene rivelata la sua vita disordinata e traviata rispetto alla Legge di Dio (v. 18), inducendola, così, a muovere i suoi primi passi nella fede in Gesù riconosciuto come “un profeta” (v. 19). A Lui, uomo ispirato da Dio, pone la questione riguardante il “luogo” dove è possibile incontrare Dio: per i Samaritani era il monte Garizim mentre per i Giudei era il Tempio di Gerusalemme (vv. 20-21).

A questa domanda Gesù risponde con parole di rivelazione di grande permanente attualità e valore (vv. 23-24), con le quali elimina le diatribe legate al “luogo” in cui si deve rendere culto a Dio. Con la sua venuta nel mondo, è “venuta l’ora” in cui il culto divino è sganciato da luoghi e da templi materiali e viene invece compiuto “in spirito e verità” (vv. 23-24) ossia da quanti sono rinati dallo Spirito e si lasciano da lui guidare all’accoglienza di fede della rivelazione portata da Gesù il Messia che, con la sua venuta svelerà ogni cosa (vv. 25-26). La solenne dichiarazione messianica: «Sono io, che parlo con te» chiude il dialogo con la samaritana.

Prende così avvio la seconda sezione (vv. 27-42) inaugurata dall’accorrere a Gesù degli abitanti di Sicar e del dialogo con i discepoli riguardante il suo vero “cibo” che consiste nel compiere la volontà del Padre (vv. 31-34) che lo ha inviato nel mondo per “salvare” il mondo. è questa l’“opera” che il Padre ha affidato a Gesù e alla quale egli ora associa i suoi discepoli con l’invito: «alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura» e con l’esplicito mandato a “mietere” cioè a raccogliere l’umanità nella “comunione” con Dio qui indicata con l’espressione “vita eterna” (vv. 35-38).

La conclusione (vv. 39-42) fa capire che i Samaritani che credono nel Signore “per la parola della donna” e ancora di più “per la sua parola”, professando la fede in Gesù quale “salvatore del mondo”, sono, in verità, primizie dell’“opera” salvifica commessa da Dio al suo Figlio e da questi ai suoi discepoli e, dunque, ai discepoli di tutti i tempi.

Il contesto quaresimale in cui viene proclamato il brano evangelico induce a porre l’accento sul dono “dell’acqua viva” promessa da Gesù alla samaritana e che rappresenta la rivelazione di Dio che solo il Figlio è in grado di portare in pienezza.

La Scrittura, come sappiamo, indica nella Legge, consegnata da Dio nella sua manifestazione a Mosè sul monte Sinai, l’“acqua viva”. Si tratta certamente di un grande “dono” di Dio al suo popolo, che però impallidisce di fronte alla “profonda conoscenza” di lui recata a noi dal suo Figlio, grazie alla quale ci è possibile «comprendere quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza» verso di noi (cfr. Epistola: Efesini 1,18).

Una simile più profonda “conoscenza” di Dio, e del disegno di salvezza e di amore che egli serba nel suo cuore per ogni uomo, realizza la promessa del dono dell’”acqua viva” fatta da Gesù alla samaritana. Questa nel suo continuo andirivieni al “pozzo” rappresenta l’incessante ricerca del cuore umano che desidera la felicità, la vita, che desidera Dio il quale ha già manifestato la sua potenza di amore verso di noi “quando risuscitò dai morti” il suo Figlio, facendolo «sedere alla sua destra nei cieli» ( Efesini 1,20).

Partecipando all’Eucaristia anche noi ritorniamo ogni domenica al “pozzo” che è il Signore crocifisso e con fede riconosciamo: «Dal tuo cuore, Signore Gesù, fiumi d’acqua viva scorreranno. Ascolta pietoso il grido di questo popolo e aprici il tesoro della tua grazia che santifica il cuore dei credenti»(Canto Alla Comunione), grazia che accende il desiderio di Dio, che permette di penetrare sempre di più nel suo mistero ed è per noi fonte di vita “eterna”. Per questo non ci stanchiamo di domandare ogni giorno: «O Gesù, hai detto alla samaritana: “Chi berrà dell’acqua che io darò, non avrà più sete in eterno”. Donaci di quell’acqua, Signore, così berremo e non avremo più sete» (Canto Allo Spezzare del Pane).

(A. Fusi)

giovedì 17 marzo 2011

507 - MESSAGGIO DI BENEDETTO XVI

Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale. Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica. Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana. Anche le esperienze di santità, che numerose hanno costellato la storia dell’Italia, contribuirono fortemente a costruire tale identità, non solo sotto lo specifico profilo di una peculiare realizzazione del messaggio evangelico, che ha marcato nel tempo l’esperienza religiosa e la spiritualità degli italiani (si pensi alle grandi e molteplici espressioni della pietà popolare), ma pure sotto il profilo culturale e persino politico. San Francesco di Assisi, ad esempio, si segnala anche per il contributo a forgiare la lingua nazionale; santa Caterina da Siena offre, seppure semplice popolana, uno stimolo formidabile alla elaborazione di un pensiero politico e giuridico italiano. L’apporto della Chiesa e dei credenti al processo di formazione e di consolidamento dell’identità nazionale continua nell’età moderna e contemporanea. Anche quando parti della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, fu proprio grazie a tale identità ormai netta e forte che, nonostante il perdurare nel tempo della frammentazione geopolitica, la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé. Perciò, l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo. La comunità politica unitaria nascente a conclusione del ciclo risorgimentale ha avuto, in definitiva, come collante che teneva unite le pur sussistenti diversità locali, proprio la preesistente identità nazionale, al cui modellamento il Cristianesimo e la Chiesa hanno dato un contributo fondamentale.

(dal Messaggio di Papa Benedetto XVI al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, 17 marzo 2011)

martedì 15 marzo 2011

506 - CERCATE IL REGNO DI DIO

Se guardassimo per il sottile, saremmo spaventati al vedere quanto l'uomo cerchi il suo tornaconto personale in ogni cosa, alle spalle degli altri uomini, nelle parole, nelle opere, nei doni, nei servizi. Ha sempre in vista il suo bene personale: gioia, utilità, gloria, servizio da ricevere, sempre qualche vantaggio per sé. Questo ricerchiamo e perseguiamo nelle creature, e anche nel servizio di Dio. L'uomo non vede nulla se non le cose terrene, come la donna curva di cui ci parla il vangelo, che era tutta riversa verso terra e non poteva drizzarsi (Lc 13,4). Nostro Signore dice che «nessuno può servire a due padroni, Dio e la ricchezza» e prosegue dicendo «cercate prima – cioè prima di tutto e innanzi tutto – il Regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,24.33).

Siate attenti dunque alle profondità che sono dentro di voi, e cercate solo il Regno di Dio e la sua giustizia – cioè cercate solo Dio che è il vero regno. Desideriamo questo regno e lo chiediamo ogni giorno nel Padre nostro. Il Padre nostro è una preghiera altissima e potentissima. Non sapete ciò che domandate (Mc 10,38). Dio è in persona il suo regno, il regno di tutte le creature ragionevoli, il termine dei loro moti e delle loro ispirazioni. Il regno che domandiamo, è Dio in persona, in tutta la sua ricchezza...

Quando l'uomo ha queste disposizioni, cercando, volendo, desiderando Dio solo, diviene lui stesso il regno di Dio e Dio regna in lui. Nel suo cuore allora regna magnificamente il re eterno che lo regge e lo governa; la sede di questo regno sta nel più intimo del suo animo.

Giovanni Taulero (circa 1300-1361), domenicano a Strasburgo

venerdì 11 marzo 2011

505 - LASCIATEVI RICONCILIARE CON DIO…

Lettura Isaia 58,4b – 12b: il digiuno ci educa a un rapporto diverso, non vorace o avido, con i beni della terra. Il suo scopo non è il proprio individualistico perfezionamento, ma morire a sé stessi per aprirsi in un modo più ospitale e solidale alla comunione con Dio e con i fratelli.

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Salmo 102: Misericordioso e pietoso è il Signore!

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Epistola 2Corinti 5,18-6,2: Paolo ci ricorda il senso della Quaresima: è il momento favorevole per lasciarci riconciliare con Dio e divenire a nostra volta segno di riconciliazione per altri. Secondo la logica del “Padre nostro” il perdono ricevuto fruttifica nel perdono offerto.

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Vangelo Matteo 4,1-11: le tre tentazioni l’identità filiale di Gesù. Figlio è colui che attende da Dio il dono che lo fa vivere, si fida del Padre senza doverlo mettere alla prova; non pretende alcun potere poiché non vive di ciò che possiede, ma di quanto riceve.

giovedì 10 marzo 2011

504 - PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA

E' caratterizzata, nella nostra tradizione liturgica ambrosiana, dalla proclamazione evangelica delle tentazioni di Gesù nel deserto secondo il racconto di Matteo

Il presente brano del Vangelo (Mt 4,1-11) segue immediatamente il racconto del battesimo al Giordano: Mt 3,13-17 e ad esso si riallaccia ponendo in primo piano l'azione dello Spirito nel “condurre” Gesù nel deserto per andare incontro alla tentazione da parte del “diavolo”, una parola greca che significa: “colui che divide o distoglie” da Dio (v. 1)

Il v. 2, con allusione all’esperienza di Mosè al Sinai (Es 24,18; 34,28) e del profeta Elia nel deserto (1Re 19,8), riferisce che Gesù: «dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame». Su tale constatazione si iscrive la prima tentazione (vv. 3-4) che potremmo chiamare quella del “pane”. Essa riguarda il “nutrimento” di cui l’uomo ha davvero bisogno per “vivere” e che, stando alla risposta di Gesù al tentatore, presa da Deuteronomio 8,3, consiste in «ogni parola che esce dalla bocca di Dio» e che è per noi custodita e trasmessa nelle Scritture.

La seconda è la tentazione del «punto più alto del tempio» (vv. 5-7) di Gerusalemme, dal quale Gesù viene invitato a gettarsi mettendo alla prova Dio stesso che, stando al Salmo 91,11-12 parzialmente citato dal diavolo, dovrebbe intervenire a sua protezione e custodia. La risposta di Gesù, presa da Deuteronomio 6,16, esclude la pretesa di attendere da Dio un segno prodigioso per credere e obbedirgli.

La terza tentazione è quella del “monte altissimo” (vv. 8-10), dal quale il satana mostra a Gesù il suo regno, ovvero il mondo intero, e si dichiara disposto a cederlo a lui a una condizione: che Gesù volti le spalle a Dio interrompendo così il suo rapporto filiale con lui! Con la sua decisa risposta, presa da Deuteronomio 6,13, Gesù allontana da sé il tentatore e ribadisce la sua piena e definitiva obbedienza al Padre nella quale consiste l’adorazione e il vero culto a Dio.

Il racconto si chiude al v. 11 con il satana che abbandona, sconfitto, il campo e con l’intervento degli “angeli” che si prendono cura di Gesù.

Proclamato all’inizio della Quaresima, il tempo liturgico orientato all’annuale solenne celebrazione della Pasqua, il brano evangelico odierno intende presentare Gesù, il figlio obbediente del Padre, quale modello ed esemplare a cui guardare e da riprodurre nella vita di chi, grazie all’immersione battesimale nella morte del Signore, è rinato alla vita nuova di “figlio” e incorporato nell’unico corpo del Signore che è la Chiesa.

La “tentazione” a cui Gesù si sottopose nel deserto è avvenuta perché tutti trovassimo in lui l’ispiratore delle parole, dei sentimenti e delle azioni da mettere in campo lungo il cammino della nostra vita durante il quale il “nemico” farà di tutto per distrarci dalla “bocca” di Dio, per insinuare il dubbio lacerante sulla sua effettiva bontà e paternità nei nostri riguardi e per indurci a voltargli le spalle, rifiutando di “adorarlo” e di “servirlo” ossia di prestargli filiale ascolto e obbedienza per adorare e servire gli “idoli” inconsistenti di questo mondo effimero.

Per questo la Quaresima ci propone alcuni “esercizi” spirituali come, ad esempio, il “digiuno” ben conosciuto nella Scrittura e, come abbiamo visto, praticato dal Signore stesso. Esso, per essere “gradito” a Dio non deve limitarsi a una semplice privazione del cibo materiale fine a sé stessa. Il digiuno, in realtà, deve dare l’opportunità di capire fino in fondo le parole del Signore: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».

Al digiuno, inoltre, deve essere data un’anima che, come apprendiamo dalle parole profetiche della Lettura, è la carità così concretamente esemplificata: «sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi… nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo» (Isaia 58,6-7).

Del resto è proprio la carità di Dio a operare “in Cristo” suo Figlio la “riconciliazione” dell’umanità immiserita e umiliata dal peccato, che Dio decide di “non imputare” agli uomini perché di esso, con indicibile amore, si è caricato Gesù (cfr. Epistola: 2Corinzi 5,19b). Il cammino quaresimale verso la Pasqua, diviene così esemplare del cammino dell’intera nostra esistenza.

Per non venir meno e non soccombere alle insidie del “tentatore”. la preghiera liturgica ci esorta a tenere fisso lo sguardo su Gesù nel quale, come diciamo nel Prefazio: «riconosciamo o Padre la tua Parola che ha creato ogni cosa, e in lui ritroviamo il pane vivo e vero che, quaggiù ci sostenta nel faticoso cammino del bene e, lassù, ci sazierà della sua sostanza nell’eternità beata del cielo».

(A. Fusi)

mercoledì 9 marzo 2011

503 - IL REGNO DI DIO E' VICINO

venerdì 4 marzo 2011

502 - LA DOMENICA DEL PERDONO

Il Vangelo di Luca 15,11-32 presenta la terza delle parabole narrate da Gesù per rispondere ai farisei e agli scribi che lo rimproverano per la sua accoglienza e disponibilità verso “i peccatori” con i quali addirittura siede a mensa (Matteo 15,1-2). Le prime due sono rispettivamente quella della “pecora perduta e ritrovata” (vv. 4-7) e della “moneta perduta e ritrovata” (vv. 8-10).

La parabola oggi proclamata, che ha il Padre come protagonista principale, è divisa in due parti. La prima riguarda il “figlio più giovane” prima “perduto” e poi “ritrovato” (vv. 11-24) e la seconda parla del “figlio maggiore” che non si è mai mosso da casa e che, in verità, non si è mai sentito e comportato come vero “figlio” (vv. 25-30). I vv. 31-32, infine, riportano la risposta del Padre, al figlio maggiore, nella quale abbiamo la rivelazione della bontà di Dio nei confronti di tutti gli uomini e, con la quale, Gesù l’inviato di Dio, giustifica il suo atteggiamento misericordioso specialmente verso i “perduti” ossia “i peccatori”.

La parabola prende avvio con la richiesta del figlio minore di avere la parte del patrimonio a lui spettante sulla base delle prescrizioni della Legge (vedi Levitico 27,8-11; e Numeri 36,7-9) e la sua partenza da casa verso “un paese lontano” dove rapidamente esaurisce le sue sostanze conducendo una vita disordinata (vv. 12-13).

I vv. 14-16 segnano il repentino mutamento delle condizioni di vita del giovane che si trova per necessità a doversi occupare di una mandria di porci. Cosa, questa, proibita dalla Legge e segno dell’abiezione più profonda per un giudeo.

L’osservazione riportata al v. 17 è determinante per il profondo cambiamento del cuore del ragazzo. Finalmente “rientrò” in sé stesso compiendo idealmente il percorso di ritorno alla casa del Padre e preparandosi convenientemente all’incontro con lui riconoscendo il suo “peccato” (vv. 17-19).

Di qui la decisione di ritornare effettivamente dal Padre (v. 20) il quale addirittura preso da una grande commozione gli va incontro e compie gesti di “riconoscimento” del prodigo come suo “figlio” (lo abbraccia e lo bacia). L’amore straripante del Padre non gli permette neppure di aprire bocca, anzi si manifesta con segni di generosa accoglienza: il vestito più bello, l’anello, i calzari, il vitello grasso che viene imbandito perché la festa sia piena (vv. 22-23).

Il v. 24 riporta la motivazione di tutto ciò: il figlio che era come “morto” è “tornato in vita”, il figlio che si era “perduto” è stato “ritrovato” e riconsegnato all'amore del Padre.

Nella seconda parte viene descritta la reazione del “figlio maggiore” una volta appreso, si badi non dal Padre, ma da un servo, il motivo della festa (vv. 26-27). Stavolta è lui ad allontanarsi da casa senza curarsi di provocare dolore nel cuore del Padre costretto a uscire incontro a lui e addirittura “a pregarlo” (v. 28). Le sue parole dicono in verità che lui non si è mai veramente considerato “figlio” ponendosi in un rapporto di “servizio” formalmente obbediente non certo dunque filiale con il Padre. Rapporto che, come avviene, dovrebbe essere ricompensato almeno da un “capretto”.

La risposta del Padre vuole rassicurare il figlio maggiore che i suoi sentimenti per lui non sono da meno di quelli riservati al figlio scapestrato e lo invita a far festa, a gioire cioè con lui che ha recuperato un “figlio” al suo amore e lui stesso un “fratello”.

Proclamata in questa domenica che fa da ponte tra il Tempo dopo l’Epifania del Signore e quello di Quaresima, la parabola del Padre buono e dei due figli entrambi “perduti” intende esortare tutti a intraprendere nel prossimo tempo quaresimale, un deciso cammino di conversione e di ritorno a Dio.

Con le sue parole e con i suoi gesti Gesù ci ha con evidente chiarezza fatto comprendere che Dio, il Padre «è buono e grande nell'amore» (Ritornello al Salmo responsoriale) verso tutti, senza eccezione. Non ci sono uomini o donne per quanto lontani e addirittura “perduti” che Dio non tenga sempre nel suo cuore, spiando l’occasione propizia per attirarli nuovamente a sé, per parlare al loro cuore (cfr. Lettura: Osea 2,16) al fine di poterli finalmente annoverare tra i suoi figli.

Del resto, come insegna l’Apostolo, Dio ha già perdonato i nostri peccati, anzi ha fatto sì che «la giustizia della Legge fosse compiuta in noi» perché il nostro e il peccato di tutti egli li ha perdonati una volta «condannato il peccato nella carne» ossia nella persona del suo Figlio fatto uomo in Gesù (cfr. Epistola: Romani, 8,3).

Un simile potente annuncio dell’amore davvero sorprendente di Dio deve essere capace di muovere anche nel nostro cuore quella decisione che ha rappresentato la salvezza per il figlio che era perduto: «Mi alzerò, andrò da mio padre» (Luca 15,18). Egli ci attende attorno alla mensa eucaristica dove: «Gli angeli stanno intorno all’altare e Cristo porge il pane dei santi e il calice di vita a remissione dei peccati» (antifona Alla Comunione) per «purificarci dalle colpe, per infondere vigore nella nostra debolezza e per guidarci verso la gioia del regno eterno» (Orazione Dopo la Comunione) nella sua Casa.

(A. Fusi)